Tratto dall'edizione numero 24 del 17/02/2023

di Giorgio Costa
Tra guerra e caro materia prime, inflazione galoppante e costi energetici impazziti ce n’era a sufficienza per far ripiegare l’industria. E, invece, dopo i primi mesi di sbandamento, con mercati chiusi all’improvviso e catene della fornitura interrotte, la macchina produttiva italiana è ripartita pur con la zavorra di un’inflazione a doppia cifra. Naturalmente, con distinzioni importanti tra i settori, con quelli energivori che continuano a soffrire (o a crescere meno: metallurgia, elettrodomestici e ceramica in primis) e quelli meno energivori che invece hanno ripreso vigore (come elettronica e moda).
Come mette ben in luce l’analisi Prometeia-Intesa Sanpaolo presentata il 9 febbraio scorso, il raffreddamento c’è stato, ma l’arretramento no. Tra gennaio e novembre 2022 il fatturato al netto dell’effetto-prezzi è cresciuto del 2,6% con l’Italia che si conferma così la più vicina ai livelli pre-Covid, distante mezzo punto percentuale dal dato dei primi 11 mesi del 2019 ma molto meglio di Spagna (-1%), Francia (-4,9%) e Germania (-5,7%). E se il dato al netto dell’inflazione non delude, i valori correnti, gonfiati dall’effetto prezzi (+13%), restituiscono invece una storia ben più brillante, con una crescita del 15,9% dopo lo scatto del 22% del 2021: in termini di incassi per le aziende si tratta nel complesso, in 11 mesi, di 164 miliardi in più, che portano il totale vicino a 1.200 miliardi.
Il risultato è frutto di una crescita equilibrata, garantita sia da un mercato interno tornato ricettivo – con investimenti in progresso (+10,8%) e consumi che salgono del 6,5% tra gennaio e settembre 2022 – ma anche dall’export, che in valore assoluto nel 2022 segna il nuovo massimo storico superando per la prima volta il muro dei 600 miliardi. E se l’inflazione aiuta i valori facendo crescere l’export di manufatti (gennaio-ottobre) di quasi il 20% in valore, l’aumento deflazionato è comunque del 6,5%. Guardando ai settori, sulpodio l’elettronica (+15,6%), moda (+14%) e farmaceutica (+11,5%).
Frenano invece, e qui torniamo all’impatto del conflitto tra Russia e Ucraina, i settori più energivori come metallurgia (-5,8%), chimica, che è ferma, e soprattutto elettrodomestici (-7,1%). Guardando al futuro, il quadro resta ovviamente incerto, anche perché passando dai ricavi alla produzione, i dati diffusi dall’Istat il 10 febbraio scorso indicano come a dicembre 2022 l’indice destagionalizzato della produzione industriale sia in aumento dell’1,6% rispetto a novembre e in crescita dello 0,1% su base annua e dello +0,5% rispetto al 2021.
Tornando alla produzione, le previsioni di Prometeia-Intesa SanPaolo per il 2023 indicano un progresso tra gennaio e novembre dello 0,7% per la manifattura con l’incertezza dei consumi in presenza di un’inflazione ancora a doppia cifra. Una crescita debole legata ancora all’impatto del conflitto tra Russia e Ucraina relativamente al quale non si vedono vie di uscita. E che, comunque, ha creato non pochi danni al sistema produttivo italiano. Specie nella prima parte del 2022, sono state le imprese esportatrici quelle più colpite dagli effetti del conflitto russo-ucraino. Per il 19% delle aziende che vendono all’estero, infatti, la guerra sta avendo un impatto elevato sul proprio business, contro il 14% di quelle che si rivolgono esclusivamente al mercato interno. Così oggi già un’impresa su cinque registra riduzioni delle vendite oltre confine.
A generare difficoltà è per quasi il 90% delle imprese esportatrici l’aumento dei prezzi delle materie prime e dell’energia, un problema sentito in ugual misura anche dalle realtà imprenditoriali che non esportano. È quanto emerge da una indagine condotta nell’ottobre scorso dal Centro Studi Tagliacarne per il Rapporto Export 2022 di Sace che consente di studiare le dimensioni e i tratti caratteristici dell’impatto del conflitto sulle imprese italiane esportatrici.
«Fino ad ora – spiega il direttore generale del Centro Studi Tagliacarne, Gaetano Fausto Esposito – le imprese hanno manifestato una sostanziale resilienza perché sono riuscite a trasferire sui prezzi di vendita almeno parte dell’aumento dei prezzi all’importazione». Tra le aziende esportatrici è soprattutto il settore alimentare a mostrare fatica a fare quadrare i conti con l’aumento dei prezzi di materie prime ed energia sul proprio business, che colpisce nove imprese su dieci. Ma anche il 90% delle imprese dei comparti della moda e dell’arredamento dichiara di subire particolarmente l’aumento dei prezzi dell’energia. Inoltre, mentre l’approvvigionamento energetico preoccupa un’impresa alimentare su cinque, quello delle materie prime è un problema rilevante in particolare per la filiera dell’auto (55%).
Focalizzandoci sui rapporti con la Russia, secondo i dati pubblicati dall’Agenzia Ice (Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane), sono circa 300 le aziende italiane che fanno affari diretti con la Russia, generando un interscambio di oltre 4 miliardi di euro nei primi undici mesi del 2021. L’Italia esportava verso il Paese di Putin più di 7 miliardi di euro di prodotti e ne importava 12,6 miliardi. I dati di Crisbs ci dicono poi che sono 434 le aziende italiane con almeno una filiale in Russia, per un totale di 575 filiali russe, mentre sono 153 le aziende italiane con casa madre russa e 3.478 le imprese che hanno almeno un socio di cittadinanza russa. Russia e Ucraina sono inoltre fra i principali fornitori al mondo di grano e mais, e l’Italia importa ogni anno 120 milioni di chili di grano dall’Ucraina e altri 100 milioni dalla Russia.
Complessivamente, ad ogni modo, le sanzioni alla Russia, le speculazioni sulla borsa del gas e i rincari seguiti alla guerra in Ucraina sono già costati alle casse italiane 76 miliardi solo per contenere l’impatto del caro energia su famiglie e imprese. È questo l’ammontare raggiunto dopo la finanziaria da 35 miliardi del governo Meloni, 21 dei quali destinati proprio a mitigare i rincari energetici. Stanziamento che si va a sommare ai 46 miliardi messi in campo dal governo Draghi in tre diversi decreti aiuti e ai 9,1 miliardi stanziati a novembre nel primo decreto aiuti del governo Meloni. Una stima peraltro per difetto, in quanto non considera i costi in termini di perdita della produttività delle imprese, di erosione dell’economia reale e del potere d’acquisto delle famiglie.