Il paradiso delle pensioni anticipate a pioggia per tutti proclamato due anni fa in campagna elettorale lascia il campo al duro risveglio del purgatorio di qualche anno in più in fabbrica o in ufficio
Non solo la legge Fornero è viva e vegeta (ed anche l’ex ministra che ha scritto la riforma per fortuna gode di ottima salute) ma ora il governo, già in forte difficoltà per far quadrare i conti della legge di Bilancio (servono almeno 25 miliardi per far quadrare i conti) piuttosto che mandare a riposo anzitempo i lavoratori, farà di tutto per trattenerli in servizio oltre gli attuali limiti dell’età pensionabile. E cioè fino a 70 anni. Anche se, almeno per il momento, su base volontaria. “Le previsioni Eurostat per l’Ue relative agli andamenti demografici fanno presagire un peggioramento del rapporto tra pensionati e contribuenti, con rischi crescenti di squilibri per i sistemi previdenziali, soprattutto per quei paesi, come l’Italia, dove la spesa previdenziale è relativamente elevata” ha ammonito alcuni giorni fa l’Inps nel suo Rapporto annuale segnalando che l’età effettiva di uscita dal lavoro è di 64,2 anni, grazie alle misure che consentono l’anticipo pensionistico rispetto ai 67 previsti per l’età di vecchiaia e che questo, insieme a importi di pensione ancora generosi e superiori di quasi 14 punti a quelli della media europea, mette a rischio il sistema.
Un allarme che impone al governo una precipitosa retromarcia. Adesso occorre, appunto, fermare i prepensionamenti e ora, tanto per cominciare, è in bilico la conferma di Opzione donna, il meccanismo che offre alle lavoratrici la soluzione dell’esodo con almeno 61 anni di età e 35 di contributi a condizione che ci sia la presenza di una situazione di disagio. Lo stesso giro di vite riguarderà Quota 103, la norma che, da un biennio, concede il prepensionamento ai lavoratori che possono sommare 41 anni di contributi e 62 anni di età. La norma forse sarà prorogata ma si studia una riduzione degli assegni per chi esce in anticipo. Niente da fare invece per Quota 41, ipotesi molto cara alla Lega e ai sindacati. Spedire in pensione i lavoratori con quel tetto di contributi costerebbe infatti 4 miliardi nel 2025 e 9 miliardi a regime: troppi soldi. La maggioranza pensava ad una modifica (ricalcolo degli assegni integralmente contributivo determinando così l’importo della pensione in base alla quantità di contributi versati, anziché agli ultimi stipendi percepiti come avviene con il sistema retributivo).
Ma il governo si è reso conto che in questo modo i trattamenti sarebbero stati ridotti in media del 20 per cento. Una proposta che sarebbe suonata come una provocazione. Occorre tra l’altro ricordare che attualmente una formula di Quota 41 già c’è ed è riservata a specifiche categorie di lavoratori precoci, coloro che a 19 anni avevano già accumulato 12 mesi di contributi. Dovrebbe essere invece confermata l’Ape sociale, misura che consente ai lavoratori in una situazione di svantaggio (disoccupati, care giver, con invalidità almeno del 74% con almeno 30 anni di contributi o impiegati in attività usuranti con almeno 36 anni di contributi) di avere un anticipo pensionistico una volta raggiunti i 63 anni e cinque mesi di età. Le certificazioni sono crollate nel primo semestre del 2024. Insomma la strategia del governo è completamente cambiata: lo scopo, nel settore privato, è quello di premiare chi allunga la sua permanenza almeno fino a 70 anni con una riedizione del cosiddetto ’bonus Maroni’ (riconosciuta ogni mese in busta paga la contribuzione che spetta al datore di lavoro) destinato a coloro che decidono di restare in servizio una volta maturato il diritto al trattamento di pensione ordinaria (67 anni anagrafici e almeno 20 anni di contributi versati). Nel settore pubblico, ok alla possibilità per tutti, se c’è un accordo da amministrazione e lavoratore, di restare in ufficio fino a 70 anni. Per i medici la norma già prevede il limite dei 72 anni.
Quanto alle previsioni integrative, l’obiettivo di palazzo Chigi è introdurre soluzioni che puntano a potenziare il pilastro pensionistico complementare, promuovendo una maggiore adesione ai fondi pensione su base volontaria e, nel contempo, la destinazione del montante maturato a rendita pensionistica. Insomma lavorare tutti più a lungo è il nuovo mantra visto l’andamento demografico e una crescita occupazionale che, pur sostenuta, non può finanziare le pensioni in arrivo dei baby boomer. Negli anni tra il 1960 e il 1965 sono nati circa un milione di bambini l’anno mentre in questi ultimi anni si è scesi sotto quota 400mila. Nei prossimi otto anni la grande maggioranza di queste persone andrà in pensione e nel nostro sistema a ripartizione questi assegni andranno pagati con i contributi di chi resterà al lavoro, a meno di incrementare ulteriormente i trasferimenti dello Stato.