Siamo tra quei Paesi (Austria, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Ungheria, Estonia, Malta, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Svezia, Slovacchia e Slovenia) che non prevedono alcuna forma di ius soli. U bambino nato in Italia deve aspettare il compimento dei 18 anni di età per la cittadinanza

Un cambiamento che, secondo le stime, riguarderebbe due milioni e mezzo di persone. Inoltre: se in Italia si applicasse lo ius soli (si diventa cittadini se si nasce in Italia) la misura riguarderebbe ogni anno circa 500mila bambini; se ad avere la meglio fosse invece lo ius scholae (si diventa cittadini italiani dopo aver compiuto un ciclo di studi di 5 anni) la norma interesserebbe circa 135mila persone l’anno.
Oggi nel nostro Paese la cittadinanza si acquisisce per iuris sanguinis (se si nasce o si è adottati da genitori italiani) o, se si è stranieri, dopo dieci anni e con determinati requisiti. Siamo tra quei Paesi (Austria, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Ungheria, Estonia, Malta, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Svezia, Slovacchia e Slovenia) che non prevedono alcuna forma di ius soli e chi, in Italia si oppone anche allo ius scholae sostiene che in nessun altro Paese viene applicato. Affermazione, questa, non del tutto esatta: in Grecia, Portogallo, Lussemburgo e Slovenia infatti esistono norme che prevedono l’acquisizione della cittadinanza anche in base a determinati percorsi scolastici. In Grecia (dove è stato adottato il cosiddetto “doppio ius soli condizionato”) ad esempio, se un bimbo nasce da un genitore che vive lì da almeno cinque anni quando si iscrive alla prima elementare può richiedere la cittadinanza mentre se non nasce in Grecia analoga domanda può essere presentata dopo aver conseguito un percorso scolastico di nove anni di istruzione primaria e secondaria o sei di istruzione secondaria.

Sono otto i Paesi (Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Belgio, Grecia, Olanda e Irlanda) che hanno adottato lo “ius soli temperato” mentre in nessun Paese europeo c’è lo “ius soli puro”: la differenza tra il primo e il secondo risiede nel fatto che con lo ius soli temperato oltre alla nascita nel Paese è richiesto un altro requisito (molto spesso un reddito stabile, la conoscenza della lingua o in altri casi un percorso di studi).

In Germania i tempi si sono accorciati da otto a cinque anni grazie ad una legge entrata in vigore lo scorso giugno e per avere il passaporto tedesco sono richiesti un impiego stabile, la conoscenza della lingua di livello B1 e una fedina penale pulita. Ma non basta perché i conti con il passato non si chiudono mai: occorre superare un test di cittadinanza su “ebraismo e significato dell’Olocausto”. Abolito, invece, il divieto di doppio passaporto. Il bambino acquisisce la cittadinanza se uno dei due genitori ha un permesso di soggiorno permanente da almeno tre anni e se entrambi i genitori sono residenti in Germania da almeno 5 anni. Potrà conservare anche la cittadinanza dei genitori.
In Francia (dove come in Spagna, Lussemburgo e Paesi Basi viene applicato il “doppio ius soli”) oltre ad aver vissuto cinque anni consecutivi nel Paese, sono richiesti la conoscenza della lingua di livello B1 e il superamento di un esame di storia francese (percorso che si interrompe se si è accusati di terrorismo o si è avuta una condanna di sei mesi senza condizionale). Il bambino acquisisce la cittadinanza se almeno uno dei genitori è nato in Francia. Se nasce da genitori stranieri nati in territorio non francese acquisisce la cittadinanza con la maggior età o se ha vissuto in Francia per almeno 5 anni anche in modo discontinuo a partire dagli 11 anni di età.
In Belgio occorre risiedere nel Paese da cinque anni, superare un test su una delle tre lingue nazionali e dimostrare una buona integrazione. Dopo i 18 anni di età si può richiedere la cittadinanza anche se si è residenti da 5 anni e si è sposati con un belga o si è genitori di un figlio minore belga.
In Portogallo, invece, si diventa cittadini se si è nati in territorio da genitori stranieri, e almeno uno di loro è nato e risiede in Portogallo o e si è figli di genitori stranieri che dichiarano, dopo aver legalmente soggiornato nel Paese per due anni, di voler essere portoghesi.
In Spagna occorrono dieci anni di residenza, che possono ridursi a due se si proviene da paesi dove si parla lo spagnolo o che sono parzialmente ispanofobi. In Austria, dove vige lo ius sanguinis occorrono sei anni e un reddito certo di almeno 36 mesi ma qui l’aver un processo in corso e non ancora concluso sbarra la strada.
In Irlanda, invece, ai figli di stranieri nati entro i confini del Paese viene riconosciuta la cittadinanza se almeno uno dei due genitori è residente nello Stato da almeno tre anni. Qualche curiosità: la Slovenia si piazza l’ultimo posto per numero di naturalizzazioni (soltanto 700 nel 2022) e per concederle richiede oltre a otto di residenza una perfetta conoscenza dello slovacco (lingua parlata in totale da 5 milioni di persone). A Malta serve altro: bastano 12 mesi e 750mila euro di investimenti nell’economia maltese. In alternativa si può acquistare una casa (purché valga minimo 700 mila euro) o prenderne una in affitto. Ma anche qui non bisogna badare a spese: il canone deve essere di almeno 16mila euro annui.E’ chiaro, anche dal confronto delle norme che regolano nei diversi Paesi la naturalizzazione, come l’Italia si ponga tra coloro che hanno leggi più restrittive e tempi più lunghi malgrado i numeri in termini assoluti possano trarre in inganno. L’Italia, infatti, risulta prima in Ue per naturalizzazioni concesse che, nel 2022, sono state 213.716 (in Spagna 181.581; in Germania 166.640 e in Francia 114.483), argomentazione questa usata sia dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, sia dal ministro dell’Interno Piantedosi per ribadire il “no” alla varie declinazioni dello “ius” diverse dal sanguinis.

Fino al 2021 eravamo noni in classifica, ben dopo tutti i principali Paesi Ue. In realtà, anche se analizziamo il dato del 2022, in relazione al numero dei residenti ecco che il primato italiano evapora e scivoliamo al quinto posto, dopo Svezia, Lussemburgo, Belgio e Spagna.

L’Italia infatti concede 3,6 cittadinanze ogni mille cittadini, la Svezia 8,8. Dal quinto posto scendiamo addirittura al 14esimo (fonte Migration Integration Policy Index) per le difficoltà del percorso che conduce alla naturalizzazione, compresa la discrezionalità nella valutazione dei requisiti necessari. Detto in altri termini: ben 13 Paesi hanno norme di accesso più favorevoli di noi. Un bambino nato in Italia deve aspettare il compimento dei 18 anni di età (il 65% degli studenti stranieri nelle nostre scuole è nato in Italia): in Francia la ottiene se uno dei due genitori è nato in Francia o se ha vissuto in Francia per 5 anni a partire dagli 11 anni. Il boom del 2022 (e degli anni precedenti) si spiega sostanzialmente con il fatto che per ottenere la cittadinanza da noi occorrono circa 14 anni ed avendo una storia di immigrazione più recente rispetto ad altri Paesi iniziano ad arrivare a meta i percorsi ad ostacoli intrapresi da centinaia di migliaia di persone che vivono, lavorano e pagano le tasse nel nostro Paese