La 81ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia si è conclusa con una masterclass d’eccezione: protagonista Pupi Avati, uno dei […]
La 81ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia si è conclusa con una masterclass d’eccezione: protagonista Pupi Avati, uno dei registi più iconici del cinema italiano. Invitato a chiudere l’edizione del 2024 con la proiezione del suo ultimo film, L’orto americano, Avati ha ripercorso la sua lunga carriera, toccando temi personali e professionali, dalla sua amicizia con Lucio Dalla al grande amore per la moglie Amelia Turri, soprannominata “Nicola”. Nel corso dell’incontro, Avati ha condiviso riflessioni sul mondo del cinema contemporaneo e sulla sua carriera, iniziata con difficoltà, ma che nel tempo ha saputo superare gli ostacoli, grazie anche alla sua indiscutibile passione.
L’emozione di Venezia e la crisi del cinema italiano
“Son venuto nove volte a Venezia, in concorso e non, sono stato anche in giuria, ma mi mette ancora agitazione”, ha confessato Avati, veterano del Lido, evidenziando come l’atmosfera attorno alla Mostra sembri mutata. “Dominano i bisbiglii, c’è qualcosa di malsano. Come è successo a Sanremo, conta più il red carpet che i film. Sui media si dà più importanza a come era vestita Lady Gaga che alla qualità delle pellicole. C’è da restituire più attenzione al cinema italiano, che sta vivendo una crisi terribile. Sono molto preoccupato”.
Il rapporto con il cinema e il sogno dell’Oscar
Parlando del suo modo di lavorare, Avati ha ammesso una forte connessione emotiva con le sue opere: “Altro che intelligenza artificiale, c’è qualcosa che va oltre e che certe volte ti commuove. Io a volte piango scrivendo delle cose, tanto mi immedesimo”. Con un pizzico di autoironia, ha poi rivelato: “In genere mi illudo di aver scritto qualcosa di eccezionale e preparo il discorso di ringraziamento per gli Oscar. A ogni film il discorso è diverso, ovviamente. Che qualcuno intanto è morto e non posso più ringraziarlo, ma lo schema ce l’ho da prima di fare il primo film, Balsamus, l’uomo di Satana”.
Un cinema di genere e i primi insuccessi
Avati ha parlato della sua vastissima filmografia, che ha toccato quasi ogni genere. “Tranne il western, che in Romagna è difficilissimo. Non l’ho potuto fare, con la piadina c’entra poco”, ha scherzato. Ma si è anche soffermato sul difficile rapporto tra i film di genere e il cinema italiano: “I film di genere sono stati molto bistrattati dagli autori nati dopo il ’68. Quando facemmo Balsamus, era un film pienamente sessantottino, intriso della lettura dell’Opera aperta di Eco. Puntavamo a vuotare le sale cinematografiche. E ci siamo riusciti”. Ha ricordato con affetto la prima proiezione di Balsamus: “Quando uscì eravamo nel foyer del Salone Margherita e ci davamo di gomito contenti quando la gente usciva dopo il primo tempo chiedendo indietro i soldi del biglietto. Il produttore perse 170 milioni con questo film”.
Una carriera tra successi e momenti difficili
Il regista ha ripercorso anche i momenti più difficili della sua carriera. “Dopo l’insuccesso dei due film bolognesi, mi trasferii a Roma e per molto tempo faticai a trovare lavoro”. La svolta arrivò con La casa dalle finestre che ridono, considerato da molti un capolavoro. “Capolavoro non lo so”, ha detto con modestia, “ma a fare questo film mi portò la disperazione di un momento tragico”. Il film, girato con un budget ridottissimo, divenne uno dei suoi maggiori successi.
La lezione del cinema “economico”
Avati ha riflettuto anche sul valore del cinema a basso costo, un tema che sente particolarmente vicino: “Fare un cinema economico è più bello. Hai la macchina da presa vicina, gli amici intorno, i fedelissimi, che è una qualità unica, senza gli obblighi che vengono con una grande troupe”. Il regista ha ricordato con orgoglio come riuscì a realizzare La casa dalle finestre che ridono: “In 12 persone con 120 milioni facemmo questo film, che dopo tanti anni è ancora vivo. Un film miracoloso, fortunato”. Ha poi aggiunto che il cinema italiano dovrebbe tornare a questo modello, incoraggiando un approccio più semplice e genuino.
La nostalgia degli anni giovanili
In chiusura, Avati ha raccontato un episodio personale, rievocando la sua giovinezza e la “mostruosità” dell’Italia del dopoguerra, rappresentata da una fotografia della sua classe di terza liceo che ancora tiene sulla scrivania. “Eravamo una mostruosità. Il primo dopoguerra italiano era rappresentato da dei giovani orrendi… La paura ti rende brutto”. Ma è stato l’incontro con la sua futura moglie, Amelia, a segnare profondamente la sua vita. “Dopo l’insuccesso come musicista, mi dedicai alla bellezza femminile e a conquistare la ragazza più bella di Bologna”. Secondo Avati, ognuno di noi è come un puzzle: “In certi casi, affettivamente manca una tessera, che è la lei della tua vita. Io ho sempre pensato questo, e allora capii che Amelia era la tessera che mi mancava”.
Con queste parole cariche di affetto e di una saggezza maturata in una carriera lunga e variegata, Pupi Avati ha lasciato un segno profondo in questa edizione della Mostra del Cinema, ricordando al pubblico l’importanza di un cinema autentico e radicato nelle emozioni.