Cosa accadrebbe se  si chiudessero i confini del Paese dando una ulteriore stretta agli ingressi dei lavoratori extra- Ue?

Che in pensione probabilmente non ci andremmo mai. Neanche l’innalzamento ai 70 anni, su cui sta ragionando il governo, eviterebbe l’implosione del debito pubblico.

D’altro canto sono i numeri a raccontare quanto alta sia la richiesta di forza lavoro straniera come dimostra il boom di pratiche presentate nel 2024 per il decreto flussi (che regola il numero massimo di stranieri extra Ue che ogni anno possono fare ingresso in Italia per lavoro): oltre 702mila richieste a fronte dei 151mila posti stabiliti. Lo scorso anno erano state 600mila contro i 136 mila posti. Un trend che dimostra come l’Italia, in linea con l’Europa, debba far ricorso in modo sempre più imponente alla manodopera straniera per far fronte alla carenza interna dovuta al calo demografico.

Secondo l’Istituto Cattaneo  proprio in conseguenza del calo demografico  (nell’ipotesi di migrazioni e mortalità nulla e di nessun cambio di cittadinanza), «il numero di occupati di 15-64 anni, fra il 2012-20 e il 2022-30 calerà nel Centro Nord di più di un milione e 200mila unità»  e ciò comporterà un vuoto occupazionale creato dai nuovi pensionati che non potrà essere colmato dalle future generazioni.

Inoltre: cresceranno gli occupati over 50 e diminuiranno i giovani lavoratori con bassa istruzione. Nel Sud aumenterebbero gli occupati grazie agli over 50 che supererebbero in numero gli under 50 grazie al fatto che il declino della natalità nel Mezzogiorno è stato più tardivo che nel resto del Paese. Ultimo dato: nel 2036 ci sarà un solo lavoratore per ogni cinque pensionati. Vale a dire che i conti pubblici rischiano il default.

Inutili allarmismi? Stando a quanto affermato dal governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, lo scorso agosto durante il suo intervento al Meeting, no. Per provare a colmar gli squilibri demografici, ha spiegato, «una risposta razionale può essere l’introduzione di misure che favoriscano l’ingresso di lavoratori stranieri regolari». Lo scenario di medio termine, infatti, non lascia spazio a dubbi: «Le proiezioni demografiche indicano che nei prossimi decenni si ridurrà il numero di cittadini europei in età da lavoro e aumenterà il numero degli anziani». Una dinamica che «rischia di avere effetti negativi sulla tenuta dei sistemi pensionistici, sul sistema sanitario, sulla propensione a intraprendere e a innovare, sulla sostenibilità dei debiti pubblici. Per contrastare questi effetti, è essenziale rafforzare il capitale umano e aumentare l’occupazione di giovani e donne, in particolare nei paesi – tra cui l’Italia – dove i divari di partecipazione al mercato del lavoro per genere ed età sono ancora troppo ampi».

«Le proiezioni demografiche indicano che nei prossimi decenni si ridurrà il numero di cittadini europei in età da lavoro e aumenterà il numero degli anziani».

In un articolo apparso su the Conversation del 19/09/2024,  Bedassa Tadesse (Professor of Economics, University of Minnesota Duluth) e Roger White (Professor of Economics, Whittier Colleg), due economisti,  illustrando i risultati di una recente ricerca, spiegano: «Gli immigrati svolgono un ruolo indispensabile e multiforme nel plasmare l’impronta economica sia dei paesi d’origine che di quelli ospitanti, soprattutto nel mercato globale.

Come lavoratori, colmano le lacune critiche del mercato del lavoro, apportando competenze e prospettive uniche che guidano produttività e innovazione. Come consumatori, le loro preferenze per il paese d’origine influenzano significativamente i flussi commerciali bilaterali. Come imprenditori, possono migliorare il vantaggio competitivo del paese ospitante nel commercio globale introducendo nuovi prodotti e servizi, creando valore e contribuendo alla ricerca e allo sviluppo».  I due economisti spiegano, dunque, che «gli immigrati contribuiscono  al tessuto economico delle nazioni molto più di quanto si pensasse in precedenza. Facilitando quello che è noto come “scambio di valore aggiunto”, o TiVA, gli immigrati svolgono un ruolo cruciale nell’aiutare i paesi a specializzare la loro produzione, a risalire la catena del valore e a migliorare significativamente la sofisticatezza degli scambi».

Nell’ultimo rapporto “Immigrazione e imprenditoria” realizzato dal Centro Studi e Ricerche IDOS in collaborazione con CNA, l’Italia è  tra i principali Paesi dell’Unione europea con una imprenditoriale vivace contando circa 4,4 milioni di lavoratori autonomi, di cui 287.200 stranieri. Il dato che emerge, inoltre, è che mentre l’imprenditoria italiana ha subito una flessione, quella straniera ha registrato un considerevole balzo in avanti:  tra il 2011 e il 2022 l’incremento è stato pari al 42,7%, il decremento di quelle italiane è stato del 5%. Tolgono lavoro agli italiani?  Il rapporto ribadisce che in realtà anche nel settore imprenditoriale le persone immigrate operano soprattutto in settori e  attività svantaggiate e poco remunerative, una scelta  «spesso perseguita come una strategia di auto-impiego e di potenziale ascesa socio-economica, mirante a migliorare le condizioni lavorative e a emanciparsi dalle rigide logiche di stratificazione che modellano l’inserimento alle dipendenze. Tuttavia, gli esiti restano intrinsecamente legati a dinamiche simili a quelle a cui cercano di sottrarsi». Tre le raccomandazioni contenute nel rapporto: sostenere lo sviluppo delle imprese immigrate capitalizzando “la loro vocazione transnazionale” per  stimolare l’economia italiana; abbattere gli ostacoli giuridici, burocratici e socioeconomci che scoraggiano l’imprenditoria straniera e fanno sì che persista soltanto la piccola imprenditoria di immigrati stabilmente residenti in Italia;  valorizzare il potenziale innovativo delle imprese immigrate, «soprattutto quelle guidate da giovani di nuova generazione, e promuovere un maggiore sostegno da parte del sistema produttivo italiano per migliorare la competitività sui mercati internazionali.

Il dato che emerge, inoltre, è che mentre l’imprenditoria italiana ha subito una flessione, quella straniera ha registrato un considerevole balzo in avanti:  tra il 2011 e il 2022 l’incremento è stato pari al 42,7%, il decremento di quelle italiane è stato del 5%.

Questa raccomandazione sottolinea l’importanza delle startup innovative gestite da giovani immigrati, che possono portare avanti progetti innovativi e tecnologicamente avanzati, contribuendo così alla crescita economica e alla competitività dell’Italia sui mercati globali». Ed è con questo scenario che ci si dovrà confrontare da qui ai prossimi anni: o l’Italia si apre a nuove energie e nuove opportunità o diventerà un Paese per vecchi. Poveri.