Lavoro

Boom di nuovi posti di lavoro, la disoccupazione è al 7,2%. Perché allora l’Italia cresce poco?

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Arrivano gli ultimi dati sul mercato del lavoro in Italia, e pur tra diversi distinguo, tecnicismi e segni “più” e “meno” nelle varie categorie confermano sostanzialmente il trend positivo in atto da tre anni: i posti di lavoro sono aumentati. Secondo le puntali statistiche dell’Istat, a gennaio diminuiscono gli occupati e i disoccupati rispetto al mese precedente, mentre aumentano gli inattivi. L’occupazione cala sì leggermente (-0,1%, pari a -34mila unità) ma è poca roba rispetto al picco di occupati registrato a dicembre, ossia 23,7 milioni, nuovo record dall’inizio delle serie storiche dell’istituto di statistica. La flessione riguarda soprattutto gli uomini, gli under 34, i dipendenti a termine, gli autonomi; l’occupazione cresce invece tra le donne e chi ha almeno 50 anni. Il tasso di occupazione scende al 61,8% (-0,1 punti).

Ma se si allarga l’orizzonte temporale, e si confronta il trimestre novembre 2023-gennaio 2024 con quello precedente (agosto-ottobre 2023), si nota un aumento del livello di occupazione dello 0,4%, per un totale di 90mila occupati. La crescita dell’occupazione, osservata nel confronto trimestrale, si associa alla diminuzione delle persone in cerca di lavoro (-3,5%, pari a -67mila unità) e alla stabilità degli inattivi.

Ancora meglio su base annua: il numero di occupati, a gennaio 2024, supera quello di gennaio 2023 dell’1,6% (+362mila unità). L’aumento coinvolge uomini, donne e tutte le classi d’età, a eccezione dei 35-49enni per effetto della dinamica demografica negativa: il tasso di occupazione, che nel complesso è in aumento di 0,8 punti percentuali, sale anche in questa classe di età (+0,4 punti) perché la diminuzione del numero di occupati 35-49enni è meno marcata di quella della corrispondente popolazione complessiva. Rispetto a gennaio 2023, calano sia il numero di persone in cerca di lavoro (-8,1%, pari a -162mila unità) sia quello degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (-1,3%, pari a -157mila).

Fin qui la successione delle cifre, che possiamo condensare in un dato con cui abbiamo più dimestichezza: il tasso di disoccupazione a gennaio 2024 è rimasto stabile al 7,2%, il livello più basso dal dicembre 2008. «L’occupazione in Italia continua a crescere – ha sottolineato un paio di mesi fa la premier Giorgia Merloni al raggiungimento del nuovo record – Nell’ultimo anno, da quando c’è questo governo, ci sono oltre mezzo milione di posti di lavoro in più, in grandissima parte con contratti stabili». Segno «di una nazione che punta sul lavoro di cittadinanza, lasciandosi alle spalle le fallimentari ricette del passato».

Tutto bene, dunque? Se si va oltre la rigorosa logica dei numeri, la lettura del mercato del lavoro diventa più complessa. Emergono interrogativi su cui gli economisti stanno discutendo da tempo. E non soltanto in Italia, per la verità. La domanda prima è: perché a fronte di un boom occupazionale il Paese cresce di meno? Lo scorso anno il Pil italiano è cresciuto dello 0,9% (il primo marzo l’Istat lo ha corretto al rialzo da 0,7%) ma nel 2022 era salito del 3,7%: certo meglio della Germania, che è in recessione, ma meno di Spagna. E per il 2024 Banca d’Italia stima un +0,6%.

E ancora: come si concilia questo incremento di posti con il fatto che le imprese continuano a non trovare i profili che cercano? Stando al bollettino Excelsior, a gennaio il “mismatch” tra domanda e offerta di lavoro ha interessato 250mila assunzioni delle 508mila programmate (49,2%), soprattutto a causa della mancanza di candidati (31,1%), seguita dalla preparazione inadeguata (14,3%) e da “altri motivi “(3,8%).

Al di là di qualche isolata frenata congiunturale, il costante aumento degli occupati abbinato alla bassa crescita alimenta gli interrogativi: di solito non ci si aspetta un aumento dei lavoratori in un’economia che non va a pieni giri. È un controsenso. Basti considerare che il Prodotto interno lordo, l’aggregato che misura il valore della produzione di beni e servizi finali realizzata all’interno del Paese, è la somma dei redditi da lavoro e da capitale prodotti: più posti vuol dire più stipendi, cosa che anche solo per una semplice spiegazione algebrica porta a una crescita del Pil. E questo non sta avvenendo nella misura in cui sarebbe lecito aspettarsi.

Il puzzle dell’occupazione senza crescita ha attirato l’attenzione di molti commentatori, e sono state avanzate diverse ipotesi. La più immediata riguarda la qualità dei posti creati. Il mezzo milione di posti in più sarebbero frutto di contratti part-time, e quindi poveri, concentrati in settori a bassa innovazione e produttività: parliamo di occupati a termine, in particolare stagionali, somministrati, tempi determinati, intermittenti e con contratti di prestazione occasionale. Se un posto di lavoro è pagato poco, con poche ore, con forme di contratto flessibili (come per stagionali e precari), non dà un grande apporto al Pil. Eppure i dati sembrano smentire questa ipotesi: è a livelli record anche il numero dei dipendenti a tempo indeterminato, ossia quelli con maggiore stabilità e qualità nella retribuzione.

Una chiave di lettura diversa arriva dalla Banca d’Italia: la recente fase di crescita dell’economia si sarebbe spostata sul recupero delle attività dei servizi, ad esempio nel turismo, caratterizzate da un valore aggiunto per occupato mediamente basso. Nei modelli economici il mix produttivo delle imprese è dato dai fattori capitale e lavoro: ci sono settori con un’intensità di capitale più alta, come la metalmeccanica, e altri dove prevale l’intensità del lavoro, come il settore alberghiero. C’è stato quindi un ritorno alla manualità: per far fronte ai maggiori costi dell’energia, compiti in precedenza svolti dalle macchine sono stati restituiti ai lavoratori, aumentando l’occupazione. Una conferma verrebbe dal calo della produttività registrato dal 2021 a oggi: secondo gli economisti di Via Nazionale, l’effetto positivo del reddito da lavoro sarebbe compensato dalle perdite in termini di reddito generato dal capitale.

Voce.info avanza un’altra ipotesi ancora, richiamando alle difficoltà del periodo post-pandemico, con il difficile reperimento di lavoratori per molte aziende e un aumento dei posti vacanti: «Dopo un lungo periodo di difficoltà nel trovare manodopera, le imprese sarebbero adesso restie a ridimensionare gli organici nella fase di frenata dell’economia – scrivono Marina Barbini e Fedele De Novellis – Proprio per evitare di incorrere nei costi di selezione del personale nella successiva fase di ripresa, le imprese avrebbero adottato strategie di “labour hoarding”, per cui anche nei settori in difficoltà si sarebbero osservate pochissime riduzioni degli organici». Altro aspetto: «La fase di eccezionale moderazione salariale pur di fronte agli aumenti significativi dei prezzi, che avrebbe modificato le convenienze relative, favorendo la tenuta della domanda di lavoro».

C’è invece chi punta su un banale problema di sottostima dei dati. Come ha scritto l’economista Riccardo Trezzi, l’aumento del Pil italiano potrebbe essere più alto di quello stimato. Negli anni passati è sempre stata rispettata l’equazione “crescita Pil=crescita occupazione”. Perché pensare che non sia più vera? Oltretutto viviamo in una fase di turbolenze che possono incidere sui dati. È già capitato che i numeri sulla crescita venissero corretti al rialzo dopo mesi, come appunto è avvenuto il 1° marzo. E l’anomalia del resto è destinata a riassorbirsi: il numero dei disoccupati continua a scendere, ma meno rapidamente rispetto a qualche mese fa. Crescita e lavoro si riallineeranno.

In realtà sono diversi gli economisti convinti che il dato sulla crescita economica italiana sia sottostimato, come pure quelli sugli occupati: continua a essere molto alta la scarsità di lavoratori rispetto alla domanda delle imprese. Il Covid, insomma, ha scombinato i parametri degli uffici statistici. Per Andrea Garnero, «la sottostima del Pil dipende dal fatto che il Gross domestic income (il reddito nazionale lordo, ndr) italiano, l’altra modalità di misurare la ricchezza guardando al reddito, è molto più alto di quello che indica il Pil. Ecco perché potrebbe essere rivisto al rialzo».

Ben vengano, in definitiva, i primati, a patto che non distraggano l’attenzione dai problemi strutturali del nostro mercato del lavoro, che spiegano anche la debole crescita degli ultimi decenni. Anche perché i primati possono essere in positivo ma anche in negativo. Il tasso di occupazione italiano è ancora il più basso di tutta l’Unione europea ed è nettamente inferiore rispetto a quello di Germania, Francia e Spagna. Quello di inattività resta invece il più alto dell’Eurozona. E siamo tra i primi per tasso di disoccupazione giovanile e percentuale di Neet, ovvero i giovani che non studiano né lavorano.

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