Economia della Conoscenza

A Sanremo si celebra la canzone italiana che non c’è

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Il festival è finito. Questa mattina al bar ho visto tante facce assonnate. «Abbiamo fatto le tre», era la news del caffè. Tutti a vedere la finale del 73esimo Festival della canzone italiana e le lacrime del vincitore Marco Mengoni,  una cinque giorni che nemmeno una Parigi Dakar. Da questa edizione firmata ancora Amadeus, che ha stracciato i record di ascolti – e anche di profitto per mamma Rai che si porta a casa 50 milioni di euro –  possiamo trarre alcune considerazioni.

La prima e ovvia: Sanremo NON è il festival della canzone italiana

Ma uno show oliato, dove l’ingrediente principale non è la musica (anche se il mantra recita il contrario). La musica diventa companatico per una sapiente dose di buonismi che lavano le coscienze, spesso decontestualizzati, amore, pace, rispetto, condivisione, uguaglianza, raccontati in modo meccanico, senza emozioni. Tutto fatto per rimanere sul sentiero di una narrazione necessariamente superficiale.

È vero, il mondo cambia, si trasforma anche la musica, ma questa ha comunque dei canoni da rispettare anche quando la si esplora ed eviscera nella continua ricerca di nuovi percorsi. Qui è tutto statico: un rap che diventa pop, dunque urban, che però stride con gli archi e gli arrangiamenti di un’orchestra che ce la mette tutta ma fa quello che può. Il risultato è che si mette a nudo la fragilità dei brani in gara, conseguenza di vuoti culturali enormi. E non vengano a parlare di generazione Z, è il mondo che va avanti e altre mistificazioni simili. Cantanti che si mangiano le parole (si fa, lo so, ma non per questo è una cosa positiva), voci che hanno bisogno dell’autotune – inascoltabili – per chi non ha la forza di essere un Gianni Morandi, o una Giorgia, lei sì, concorrente visibilmente a disagio su quel palco.

Non si giudica la buona volontà dei partecipanti, tutti emozionati e felici di essere lì tra i fiori (ha fatto sorridere il ringraziamento di uno dei Colla Zio al “signor Morandi”), ma della pochezza della musica si deve parlare, perché è strettamente legata al momento (che ormai dura da decenni) in cui viviamo. Si preferisce la semplicità – è un dato di fatto – in tutto. La complessità spaventa, allontana. Invece proprio lì bisognerebbe andare per far nascere farfalle colorate, ancora prigioniere nel loro bozzolo, come Madame, che ringrazia Amadeus: «un Sanremo molto difficile, per fare cento metri ne ho corsi mille».

La bravura si misura con i like e le interazioni social, così i discografici fanno i soldi coltivando l’appiattimento. Di artisti fantastici, questo sì, l’Italia ne ha a centinaia (spesso più famosi all’estero che in patria), di label che investono su preparazione, bravura e cultura troppo poche. Ma per questi artisti non c’è un festival della canzone italiana. Il mainstream impone altro. Sarebbe un discorso troppo lungo, magari un giorno si troverà la forza e il consenso per farlo.

Seconda considerazione: portare sul palco i totem della canzone italiana d’autore,

quella vera, non salva la qualità. Ieri sera Gino Paoli e Ornella Vanoni, entrambi ottantottenni, mi hanno imbarazzato. Esiste una pietas che dovrebbe far evitare certe figure, anche se a suonare con Paoli c’era il grande Danilo Rea. Scomodare due mostri sacri della canzone italiana, pilastri intoccabili, per un paio di numeri da amarcord tra amici, è stato poco rispettoso e dignitoso. Anche gli acclamati Depeche Mode, una delle mie band giovanili, hanno deluso, fantasmi di un passato che ostinatamente si vuole riesumare per carenza di creatività odierna.

Terza considerazione. Il Festival della Canzone Italiana è da sempre una questione politica.

Questa edizione ha raggiunto il massimo livello di guardia. Mai si era visto un presidente della Repubblica che sente la necessità di andare davanti a milioni di italiani (solo lì poteva trovarli) per assicurare i paletti della Costituzione italiana. Come mai s’era sentito dire da chi sta al governo che gli italiani hanno fatto una scelta politica chiara e, dunque, è giusto che cambino anche i modelli culturali di riferimento. Rosa Chemical, che nessuno conosceva se non nei circuiti alternativi, deve ringraziare la deputata di FdI che si è scagliata contro di lei e il gender fluid per essersi fatto/a notare. Il bacio di ieri sera a Fedez e il vibratore esibito sul palco due sere fa, sono stati l’unico atto veramente “punk” di un festival che con il punk non c’entra nulla. Alle 2:13 del mattino Amadeus ha letto il messaggio di Zelensky. Tanto rumore per nulla. Come la band rock ucraina Antytila, il cui frontman ha rimarcato le parole del suo presidente: «aiutateci e vinceremo la guerra».

Conclusione. Sanremo è Sanremo,

lo diceva uno dei claim più gettonati della storia del festival. Quindi è intoccabile e immutabile. Peccato che piccole perle rare come l’esibizione di qualche anno fa di Tosca e Silvia Pérez Cruz che cantavano Piazza Grande di Dalla, o quella dell’altra sera di Giorgia ed Elisa che hanno insegnato a milioni di italiani cosa sia “la voce” per un cantante, rimangano delle eccezioni. Quando diventeranno regola?