Economia della Conoscenza

Manòglia di Davide Van De Sfroos, canto di speranza

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Sono flauti nascosti questi suoni nel bosco, suonano il vento della buona pazzia/Voglie un po’ strane, temporali di nervi, perdoniamoci a rate e diciamo “chissà…”.

Davide Bernasconi, in arte Van De Sfroos, è tornato. E lo ha fatto con un disco intimo, intenso, maturo intitolato Manòglia (via BMG/MyNina), che in laghée, il dialetto della gente del lago di Como, è la magnolia. In 11 brani le riflessioni dell’artista diventano riflessioni sulla speranza e sull’uomo. Intimo ma universale, in tempi sempre più omologati, dove pensare a una foglia è già un atto rivoluzionario.

Manòglia è il tuo disco “intimo”. Perché pubblicarlo ora?

«Potrei risponderti con Dylan: la risposta amico mio soffia nel vento. Da tempo i giornalisti si domandavano quando avrei scritto il mio Nebraska. Ma di Nebraska ne esiste già uno e Springsteen è… Springsteen! Sentivo la necessità di un bel disco mormorato, di quelli da cantare non sul palco ma in veranda, seduto sulla sedia a dandolo. Avevo delle canzoni nel mio “taccuino-erbolario”, foglie che dovevano volar via perché erano lì da così tanto tempo da essere diventate importanti. Mi son detto: “Se le canti dando una chiave meno strutturata e più intimistica, più acustica e minimale puoi raccontare anche le cose più complesse. Devi spogliare la musica di tutto quello che non serve per raccontare tutta questa natura e arricchirla di quei suoni e di quelle tinte».

Ankanköö è uno dei brani più intensi, uno spoken word…

«Ho messo in metrica i miei pensieri di una mattina mentre accompagnavo i miei figli alla corriera. Saranno state le sei, sei e mezzo. Vedevo la gente che andava al lavoro silenziosa, anime che si svegliano e cominciano a pensare a come arriveranno a sera. Nella seconda strofa, le riflessioni si spostano nel bosco, tutto si popola di natura di funghi, di sottoboschi…».

Scrivi: C’è un amore da funghi che spalancano ombrelli, sulla pelle dubbiosa di una nuova stanchezza/ E si lanciano spore in quel bel sottobosco, dove a volte rinasce tutto quello che muore…

«È la speranza! Puoi leggere questo disco con una poetica di apertura verso l’antidoto a tutto ciò che ci sta soffocando, guerre, Covid, violenze sociali e familiari, governi che si attorcigliano l’uno con l’altro. In Shandemé canto: Arriva il vento della sera, senza rabbia e senza mira. La Natura non ti privilegia, c’è per tutti. Il raggio di sole ti riscalda non perché sei stato bravo ma perché non ha mira.Questa è la Natura, non fa sconti ma è sempre lì. Devi essere tu capace di muoverti e di rispettarla».

Forsi è la canzone del dubbio: Non son riuscito ad essere Batman, non son riuscito ad essere il Joker/ ma se mi impegno magari tra poco, posso riuscire a fare il Tiktoker…

«È nata come una canzone sull’incertezza, po’ guascona. Se mi guardo indietro non sono riuscito a essere né Batman né la sua antitesi, se tutto va bene, con ironia, posso mettermi a fare quello che fan tutti, il tiktoker, che non so esattamente come si faccia. Il brano ha un sound alla Buster Keaton, è manouche con un chitarrista e un clarinettista che la fanno suonare fuori dal tempo, proprio perché sei incerto in questo tempo».

Uno dei personaggi più riusciti del disco è El Mekanik. Chi è?

«È uno dei tanti che ha vissuto ai bordi della decenza. Invece di andare avanti carico di rabbia, è diventato un dottore, un meccanico, un sistematore di altre persone. I meccanici sono guaritori feriti che, proprio per questo, riescono a mettere a posto i tuoi ingranaggi. Anch’io lo sono stato: nei momenti nei quali ho avuto problemi di depressione e ansia, mi sono adoperato per aiutare chi aveva il mio stesso problema e non era capito dagli altri».

Qual è il tuo significato di fare musica?

«Il mio rapporto con la musica è reale quando ho la possibilità di farla e di usarla come pharmakon, autoindagine. Ha senso fare musica al di là delle epoche quando vedi che ti corrisponde. Non ce l’ha, invece, quando sei suo prigioniero, lo fai perché te lo impone il marketing. Non scrivo trattati di filosofia, parlo di foglie, di magnolie, di cose semplici che capirebbe anche un bambino. Il problema è: tu stai veramente bene con quello che fai oppure no? A me è capitato di andare in crisi in quei lunghi mesi di promozione di un qualcosa in cui non facevo più musica ma dovevo continuare a essere il promoter di me stesso, un gioppino che andava avanti e indietro per l’Italia, per dire che avrei fatto un concerto grosso di lì a sei mesi. Quei periodi mi hanno avvelenato, impoverito e fatto capire come possa essere brutto il mondo senza la musica».

Ha senso cantare in dialetto?

«Sì, perché il dialetto si switcha con l’italiano che è un piacere. E poi è una lingua viva. Non ho problemi a cantare ancora in laghée, ma non ne sono prigioniero. Zia Nora, per esempio, è cantata tutta in italiano e ascoltando il disco non te ne accorgi. Non bisogna essere fanatici altrimenti fai la fine di Bob Dylan a cui diedero del Giuda perché prese in mano la chitarra elettrica. Pensa che palle se avesse suonato sempre l’acustica e l’armonica!».