Economia della Conoscenza

Serie TV: quando la serialità è donna

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di Sara Sagrati

A differenza del cinema, sviluppatosi per andare incontro a un pubblico variegato ma sostanzialmente indirizzato a giovani maschi, la televisione ha sempre avuto un particolare occhio di riguardo per il target femminile. I palinsesti delle reti americane, poi copiati ovunque, si sono evoluti intorno ai valori della famiglia, perfetti per programmi da infarcire con spot di detersivi e per la cura dei figli.

Non è certo un caso se il cinema continua ad arrancare nel proporre ruoli femminili degni di nota, mentre da anni la serialità propone, con un ottimo successo commerciale, personagge sempre più complesse e stratificate. E così, mentre le storie d’amore si insinuano in altre narrazioni, le donne escono dalla dimensione domestica e finalmente parlano di loro stesse. È l’empowerment al femminile della serialità che ormai si affranca da modelli stantii e conquista spettatori (e sponsor) rispecchiando luci e ombre del proprio pubblico.

Capostipite di questa tendenza è senza dubbio Buffy (sette stagioni dal 1997 al 2003, ora su Disney+), l’adolescente cacciatrice di vampiri che ha trasformato il teen drama nella rappresentazione su come far emergere e appropriarsi delle risorse latenti nelle giovani donne.

Altro tassello fondamentale resta Sex and the city (sei stagioni dal 1998 al 2004, ora su Now) che evangelizzò milioni di telespettatrici di tutto il mondo verso una nuova liberazione dei costumi, ma sempre su tacco 12. Il terzo millennio si spalanca così al nuovo genere e continua a sfornare eroine dell’empowerment.

Billie Piper in un frame da I hate Suzie 2 (Sky e Now)
Billie Piper in un frame da I hate Suzie 2 (Sky e Now)

Donne danneggiate e alla ricerca di una stabilità emotiva in un mondo che le esige complete e sicure, come nel cult Fleebag di Phoebe Waller-Bridge (due stagioni, dal 2016 al 2019, Prime Video) e nella meno nota I Hate Suzie di Lucy Prebble e Billie Piper (2 stagioni, dal 2020 al 2022, su Sky e Now) in cui le protagoniste, interpretate dalle stesse autrici, mettono in scena il lato oscuro dell’insicurezza che scaturisce da imposizioni di genere e familiari.

Serie brillanti, spesso comiche, ma allo stesso tempo devastanti nel ritrarre eroine disperate alla ricerca del proprio centro di gravità. Una disperazione che fa capolino nei flash forward della quinta e ultima stagione di La fantastica signora Maisel di Amy Sherman-Palladino (Prime Video). Un altro cult, che a breve ci lascerà orfani della colorata e travolgente aspirante stand-up comedian Midge Maisel, sofisticata signora dell’Upper West Side nella New York degli anni ‘60, che dal 2017 ci intrattiene con dialoghi scoppiettanti, battute fulminanti, messa in scena sontuosa (rara in una comedy) e una pletora di personaggi adorabili.

Nella loro ricerca di autostima, autoefficacia e autodeterminazione – come da definizione dell’empowerment – scopriamo già nelle prime puntate dell’ultima stagione che Midge & C. avranno successo e il prezzo da pagare sarà alto. Come avrebbe potuto essere altrimenti?

Le regole le fa chi ha il potere, come ben racconta Ragazze elettriche (The Power), tratta dall’omonimo romanzo di Naomi Alderman, anche coautrice della serie su Prime Video dal 31 marzo. Una distopia in cui il corpo delle donne evolve, sviluppando la capacità di creare letali scariche elettriche. Un potere che cambia le carte in tavola e viene usato per ribaltare l’ordine costituito, soggiogando il genere maschile. La serie non eguaglia la forza emotiva e simbolica del romanzo, ma ci ricorda che un processo di empowerment ci rende migliori, mentre il potere logora chi ce l’ha, e non solo chi lo subisce.