Le opinioni

Aggiornare la contrattazione per riportare i salari alla media europea

Scritto il

di Cesare Damiano – Ex ministro del Lavoro, Presidente Associazione Lavoro & Welfare

L’Ocse ha presentato, l’11 luglio, l’edizione 2023 del suo Employment Outlook. Il rapporto che, spiega l’organizzazione, «esamina gli ultimi sviluppi del mercato del lavoro nei Paesi dell’Ocse». Esso «si concentra, in particolare, sull’evoluzione della domanda di lavoro e delle carenze diffuse, nonché sull’andamento dei salari in periodi di alta inflazione e relative politiche». Ne vengono, per quel che riguarda l’Italia, conclusioni piuttosto allarmanti.

Prima di scendere nel dettaglio, ricordiamo cos’è questa Istituzione. L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico è nata con la convenzione istitutiva firmata a Parigi il 14 dicembre 1960. L’obiettivo era la sostituzione dell’Oece, l’Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea, creata nel 1948, per gestire il “Piano Marshall” per la ricostruzione dell’economia europea dopo le distruzioni della Seconda Guerra Mondiale. Oggi ne fanno parte 38 Paesi europei ma anche delle Americhe, dell’Oceania e dell’Asia.

Nell’Employment Outlook 2023 l’Organizzazione certifica i pesanti effetti dell’inflazione sui salari reali. Non sorprende che l’effetto più pesante si sia abbattuto sulle retribuzioni italiane. Rispetto al periodo pre-pandemia, alla fine del 2022, i salari reali sono scesi del 7,5% contro una media (dei 34 Paesi dei quali sono disponibili i dati) del -3,8%. È il caso di ricordare che questa può essere considerata solo l’accelerazione di una tendenza che, per il nostro Paese, è di lungo periodo. L’Italia è, infatti, l’unico Paese dell’area Ocse nel quale il potere d’acquisto dei salari è sceso costantemente dal 1990 (-2,90%, al 2020). Ciò mentre, ad esempio, in Germania saliva di oltre il 33%. Secondo le proiezioni Ocse, l’inflazione dovrebbe attestarsi al 6,4% nel ’23 e al 3% nel ’24. Anni nei quali i salari – quelli nominali, non quelli reali – cresceranno del 3,7 e del 3,5%.

In merito, l’Ocse fa alcune considerazioni sul ruolo della contrattazione alla quale assegna un ruolo decisivo per mitigare la perdita di potere d‘acquisto e distribuire in modo più equo il peso dell’inflazione. Su questo punto, è necessario, secondo noi, fare qualche osservazione sulla qualità della contrattazione stessa.

Oggi abbiamo contratti di durata triennale o quadriennale che non si rinnovano da sei, sette anni, e anche oltre.

L’indennità di vacanza contrattuale, sostitutiva dell’aumento contrattuale, che doveva fare da stimolo al rinnovo, essendo troppo bassa è diventata, all’opposto, un freno. Un comodo rifugio per le imprese alle quali non conviene sottoscrivere nuovi accordi più onerosi.

La contrattazione decentrata è relegata a un universo limitato di imprese medio-grandi. Idem per quanto riguarda il welfare aziendale, ancora sconosciuto ai più.

L’Ipca, l’Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato a livello europeo, che viene adottato per legare i salari all’andamento dell’inflazione, esclude dal suo paniere quei beni energetici che sono stati il fattore fondamentale dell’aumento dei prezzi. Non a caso, categorie avvedute come quella dell’industria metalmeccanica, hanno inserito nell’ultimo rinnovo contrattuale una clausola di allineamento all’inflazione reale delle rate annuali di aumento calcolate inizialmente sul 2%. Risultato: l’ultimo aumento ricalcolato passa da 27 a 123 euro mensili.

È, perciò, necessario puntare su un aggiornamento delle regole della contrattazione che sono invecchiate. Estendere a tutte le categorie la qualità della contrattazione di quelle più lungimiranti, permetterebbe di difendere meglio la condizione dei lavoratori.