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La riforma del fisco è ancora un cantiere, ma attenti a sottovalutare gli allarmi

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L’Italia sta provando a riformare il fisco attraverso una delega senz’altro ambiziosa ma che giunge alla prova dei fatti con qualche incertezza. C’è innanzitutto il noto tema coperture, che mette a rischio la prioritaria esigenza di intervenire sulla struttura dei tributi per diminuire una pressione fiscale oppressiva. Del resto, il corto circuito tra esigenze di finanza pubblica e spinta a riformare il fisco, semplificando, sfruttando la tecnologia e appunto riducendo le imposte era prevedibile e forse anche previsto. La stessa delega fiscale dispone di muovere, nell’attuazione, da decreti a costo zero o che si autofinanzino. Purtroppo, però, non c’è solo questo, le incertezze riguardano anche gli ambiti di intervento e l’efficacia degli interventi stessi.

Ad oggi l’attuazione ha portato all’emanazione di decreti che assomigliano molto di più ad un riordino che a una riforma, peraltro in alcuni casi con modifiche che lasciano perplessi, come quelle relative al contenzioso tributario, che si avvia verso un modello misto tra processo amministrativo e processo civile che non soddisfa soprattutto sulle norme a presidio del diritto di difesa.

Sempre guardando ai lavori in corso, visto che ci piace mantenere un po’ di ottimismo, bene la spinta alla semplificazione ed interessante il tentativo di deprocessualizzare il diritto tributario. Da un lato con la rinnovata scommessa del concordato preventivo biennale, che sembra aprirà le porte anche alle partite Iva “inaffidabili”, ovvero quelle con gli indicatori non a posto (che, non dimentichiamolo mai, dichiarano una media di circa 23mila euro di reddito annuo, abbastanza espressivo di dove cercare il mostruoso tax gap, che secondo gli ultimi dati MEF è al 68,8%: ovvero 68,8 euro su 100 dovuti sfuggono all’erario). E dall’altro lato il potenziamento dell’adempimento collaborativo, ovvero il tutoraggio delle grandi imprese, la cui soglia di accesso scende a 750 milioni di fatturato e a tendere arriverà a 100 milioni.

Vero è che, a prescindere dai meccanismi di funzionamento di istituti come concordato preventivo e adempimento collaborativo, quello che deve cambiare è l’approccio culturale, occorre una distensione dei rapporti tra cittadino e fisco. Fallimentare è stata l’esperienza del garante del contribuente, che francamente più che passare da regionale a nazionale, come disposto dal decreto sullo Statuto (che invece altre buone norme le contiene), era forse meglio accantonare, al massimo si poteva pensare alla istituzione di una authority davvero indipendente.

È vero che la riforma è ancora un cantiere ma non vanno trascurati i campanelli d’allarme, quelli sopra sulle cose fatte e forse ancor di più quelli sulle cose da fare, che riguardano principalmente la struttura dei tributi e gli incentivi, va tenuto lontano il rischio di interventi con effetti economici regressivi. Non convince il ridimensionamento o l’abbandono di misure consolidate, si pensi, per le persone fisiche, alla riscrittura in peius delle agevolazioni sul “rientro dei cervelli”, che hanno creato un indotto importante su consumi e investimenti, e, per le società, alla cancellazione dell’ACE (aiuto alla crescita economica) che favoriva la patrimonializzazione delle imprese e riduceva il costo del capitale. Il Paese ha bisogno di vere riforme, dell’Irpef, da imperniare sul contribuente famiglia, e anche della tassazione delle imprese, motore della nostra economia.  λ