Le opinioni

Il welfare aziendale come strumento sociale

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di Cesare Damiano (Ex ministro del Lavoro – Presidente Associazione Lavoro & Welfare)

Il mercato del lavoro è attraversato da nuovi fenomeni: la scarsità di lavoratori da destinare sia alle alte specializzazioni (settore industriale) sia ai lavori di bassa qualifica (turismo e ristorazione); un crescente rifiuto di occupare posti di lavoro, anche quando si tratta dell’impiego stabile della Pubblica Amministrazione, se la retribuzione e la possibilità di valorizzazione delle competenze non sono ritenute adeguate e se non viene soddisfatto l’equilibrio tra vita e lavoro.

In questo quadro assume sempre più importanza, ai fini della fidelizzazione dei lavoratori, il profilo sociale dell’impresa e l’adozione di misure di welfare aziendale.

Quando parliamo di welfare aziendale ci riferiamo ad una eterogenea categoria di prestazioni, opere e servizi, rivolti alla generalità o a specifici gruppi omogenei di lavoratori dipendenti, erogati in natura o sotto forma di rimborso: buoni spesa e carburante, benessere e sport, viaggi e cultura, assistenza alla famiglia, ecc. Negli ultimi anni il legislatore ha più volte contribuito alla incentivazione del welfare secondario quale strumento complementare di quello pubblico, tenuto conto del progressivo processo di arretramento di quest’ultimo, in atto da molti anni a questa parte. In questo contesto gli strumenti di welfare aziendale perseguono lo scopo sociale di migliorare il complessivo benessere dei lavoratori e delle loro famiglie, in una logica di contemporaneo accrescimento della produttività dell’impresa.

Per alcuni anni consecutivi le leggi di Bilancio hanno rappresentato un “appuntamento normativo” di rilievo per la definizione e il miglioramento delle misure di welfare aziendale. Ci riferiamo, in particolare, alle leggi di Stabilità per il 2016, il 2017 e il 2018.

Anzitutto, è opportuno evidenziare come gli strumenti di welfare secondario assumano diverse accezioni: i “flexible benefits” di natura retributiva non monetaria, disciplinati dal TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi); il “welfare organizzativo”, finalizzato soprattutto alla conciliazione vita-lavoro (work-life balance); e il “welfare di produttività”, nel quale sono ricondotti i Premi di Risultato di ammontare variabile. In questo contesto alcune leggi di Stabilità hanno definito incentivi fiscali riassumibili in tre interventi: la fissazione della aliquota Irpef agevolata al 10% per le somme afferenti la produttività aziendale nel privato; la possibilità per i lavoratori di convertire i premi monetari con misure di welfare aziendale erogate in natura; l’ampliamento del campo di applicazione delle esenzioni dal reddito da lavoro dipendente.

In sostanza, il legislatore ha intercettato l’opportunità di conciliare le esigenze dei lavoratori e dei datori di lavoro, rendendoli entrambi beneficiari della riduzione degli oneri fiscali. È poi fondamentale sottolineare che il Parlamento ha deciso di incentivare il “welfare contrattato” tra sindacati e datori di lavoro, includendolo nel vantaggio fiscale prima riservato alle misure unilaterali dell’impresa.

Lo scopo è stato soprattutto quello di dedicare particolare enfasi alla contrattazione collettiva nazionale e di secondo livello, ora investita di un ruolo primario.

A tal riguardo l’articolo 51 del TUIR prevede infatti la totale deducibilità del costo del lavoro per quegli strumenti adottati in applicazione di piani di welfare aziendale definiti da negoziazioni sindacali.

Si tratta nel complesso di un quadro normativo volto ad introdurre strumenti di rilevante utilità sociale e di grande capacità attrattiva per le imprese, la cui concreta fruibilità richiede però una approfondita conoscenza non solo del correlato paniere di beni e servizi, ma anche delle relative tecniche di negoziazione; fattori, entrambi, tutt’altro che scontati.

A tal proposito, il XXI Rapporto Cnel su “Mercato del lavoro e contrattazione collettiva” del 2019 contiene un’interessante analisi quantitativa sulla applicazione delle misure di welfare aziendale, da cui emerge un quadro disomogeneo in relazione a livelli contrattuali, distribuzione territoriale, settori produttivi e dimensione delle imprese.

In sintesi, sui Premi di Risultato l’applicazione dei contratti aziendali risulta di gran lunga prevalente (77,3%) rispetto a quelli territoriali; i lavoratori beneficiari dei Premi di Risultato sono in prevalenza impiegati in aziende con oltre i 250 dipendenti (78,7%) e nel Nord (77,3%); la possibilità di conversione dei Premi in misure di welfare coinvolge un numero elevato di lavoratori (76,3%) perché maggiormente prevista nei contratti applicati dalle grandi imprese. E ancora, se parliamo di misure di welfare aziendale, anch’esse sono previste in oltre il 70% dei contratti applicati dalle imprese con oltre i 250 dipendenti, che sono scarsamente diffuse, mentre, su base territoriale, si riscontra un’altissima concentrazione nel Nord (78,8%).

La palese frammentarietà applicativa apre la riflessione sulla reale fruibilità degli strumenti di welfare da parte delle imprese di piccole dimensioni e nelle aree del Mezzogiorno. Di certo, l’attuale ginepraio di norme richiede un know-how specialistico ed una capacità organizzativo-gestionale di cui poche imprese sono provviste.

La direzione intrapresa dal legislatore, che associa la leva fiscale al crescente ruolo della contrattazione collettiva, è risultata particolarmente vincente, aprendo la strada a nuove tecniche regolatorie capaci di coinvolgere Stato, imprese e sindacati nel processo di miglioramento delle condizioni di vita della risorsa umana e della produttività. Questa scelta risulta ancor più indispensabile in un momento di ulteriore grande trasformazione del mercato del lavoro, a partire dalla richiesta che proviene dalle giovani generazioni di conciliare maggiormente il tempo di lavoro, non più concepito come esclusivo e totalmente identitario, con il tempo della vita individuale e familiare.