Le opinioni

Pensioni: dove partire per una riforma sostenibile

Scritto il

di Cesare Damiano
(Ex ministro del Lavoro – Presidente Associazione Lavoro & Welfare)

La riforma delle pensioni dovrebbe essere affrontata nel corso dell’anno: queste sembrano le intenzioni del Governo. Non sarà una impresa facile, ma è sicuramente necessario mettere mano a un nuovo sistema che superi le rigidità della attuale legislazione. Per il momento il Governo si è limitato ad adottare alcune misure-ponte: l’inserimento di “Quota 103”, la  sostanziale manomissione di Opzione Donna e l’introduzione di una indicizzazione che ha un po’ migliorato le pensioni minime e fortemente penalizzato quelle del ceto medio del lavoro.

Come sempre, quando si parla di realizzare una riforma come quella delle pensioni, bisogna mettere insieme le risorse disponibili con la sostenibilità del sistema nel lungo periodo.

Il punto dal quale partire è quello del rapporto numerico tra lavoratori e pensionati. Alla fine degli anni 60 era di 3 lavoratori e 1 pensionato. Oggi è di 1,4 a 1 e, a metà di questo secolo, c’è chi prevede che saremo in una condizione di parità: 1 a 1. In un sistema a ripartizione, nel quale chi lavora paga con i suoi contributi le pensioni in essere, questa tendenza desta preoccupazione. Inoltre, non si tratta di considerare soltanto il numero dei lavoratori, ma anche la qualità della attività da loro svolta sotto il profilo della continuità occupazionale e del livello della retribuzione. È evidente che lavoratori precari e/o a bassa retribuzione versano meno contributi e questo incide sulla sostenibilità del sistema.

Inoltre, l’Italia soffre di un significativo calo demografico accompagnato dall’innalzamento della aspettativa di vita: in sintesi, meno giovani e più anziani. Anche per questo motivo, sotto il profilo economico e sociale, oltreché umanitario, il tema dell’immigrazione va affrontato in modo diverso. Come hanno più volte sottolineato le associazioni degli imprenditori, avremmo bisogno di immettere nel mercato del lavoro almeno 200mila immigrati ogni anno, mentre i Decreti ne prevedono meno della metà.

Fatte queste premesse di scenario, veniamo alle proposte. Il primo punto è relativo alla introduzione di una flessibilità strutturale e universale che anticipi l’uscita dal lavoro rispetto agli attuali 67 anni. Intanto si tratterebbe di razionalizzare l’attuale sistema che prevede già alcune forme di flessibilità: lavori usuranti, Ape sociale, Quota 103, pensione anticipata per lavoratori di aziende in crisi e per i “precoci”, contratto di espansione, Opzione Donna, Isopensione e Rita (Rendita Integrativa Temporanea Anticipata del Fondo pensione).  Razionalizzare tutte queste modalità aiuterebbe a individuare una formula universale di flessibilità, anche considerando i costi che vengono già sostenuti dal Bilancio dello Stato e, in alcuni casi, dalle imprese, che non possono essere considerati due volte.

La nostra proposta sulla flessibilità indica una architettura semplice. Si tratta di dividere i lavoratori in due grandi famiglie: coloro che svolgono lavori usuranti e gravosi e coloro che svolgono attività considerate “normali”. Nel primo caso si tratta di platee già disciplinate per legge con un anticipo compreso tra i 60 e 63 anni di età anagrafica. Parliamo, per fare degli esempi, di minatori, palombari, addetti alle linee di montaggio, calderai e battilastra. Nel secondo caso rientrano lavoratori, tecnici e impiegati, che svolgono lavori di concetto o di tipo intellettuale nei settori della amministrazione e tecnologici, della digitalizzazione, della comunicazione e della cultura. In questo ultimo caso si può pensare a un anticipo a partire, ad esempio, dai 64 anni, prevedendo una penalizzazione del 2-3% per ogni anno prima dei 67, calcolata sulla sola parte retributiva della pensione.

Questa operazione ha un costo, ma occorre evidenziare quali sono realmente gli interessati. A questo fine divideremo la platea dei lavoratori in tre parti: chi rientra ancora nel sistema retributivo. Si tratta di lavoratori assunti alla fine degli anni 70: secondo l’Inps a fine 2020 erano 297mila e l’anno successivo 192mila. Possiamo considerarli in via di “estinzione”. Chi rientra nel sistema totalmente contributivo, perché assunto a partire dal primo gennaio del ‘96, non può essere assoggettato a penalizzazioni. Rimane, sostanzialmente, la terza platea, composta da coloro che rientrano nel sistema misto perché non avevano maturato al 31 dicembre 1995 almeno 18 anni di contributi. Solo su questa platea si concentra il calcolo dei costi, che può essere parzialmente compensato dalla penalizzazione.

Infine, bisogna prevedere l’obiettivo della pensione dignitosa anche per i soggetti fragili, i giovani e le donne. Sappiamo quanto pesino la discontinuità del lavoro e le basse retribuzioni al fini del raggiungimento di un adeguato risultato previdenziale. Un lavoratore “povero” diventa inevitabilmente un pensionato povero. Si tratta, allora, di prevedere il versamento dei contributi previdenziali per tutti i periodi: quando si lavora; durante stage, tirocini e formazione; durante la Cassa Integrazione e la disoccupazione; per il lavoro di cura e per i figli e consentire un riscatto della laurea agevolato. Infine, totalizzare tutte le gestioni, compresa quella separata. Ultimo aspetto, il rilancio della previdenza complementare attraverso un semestre di silenzio-assenso per l’iscrizione ai Fondi pensione contrattuali.