Le opinioni

RdC, le richieste calano per l’incertezza

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di Cesare Damiano – Ex ministro del Lavoro, Presidente Associazione Lavoro & Welfare

La notizia, certificata ufficialmente dai dati dell’Inps, è che nello scorso mese di aprile l’assegno del Reddito di Cittadinanza è stato incassato da 956mila famiglie. Non accadeva da prima della pandemia da Covid-19 che la cifra delle famiglie che hanno ricevuto il reddito fosse inferiore al milione. Nel 2021, quando si verificò il picco, le famiglie che percepirono il Reddito di Cittadinanza erano un milione e 800mila.

Ma un dato effettivamente interessante è il brusco calo delle domande di accesso a tale misura. Infatti, da gennaio ad aprile le richieste sono state 336mila. 119mila in meno rispetto ai primi quattro mesi del 2022.

Cosa è accaduto, dunque? Come mai questa misura ha perso il suo appeal sulla vasta fascia di cittadinanza alle prese con la povertà?

Il Reddito di Cittadinanza, è noto, è stato oggetto di una radicale azione di riforma da parte dell’Esecutivo Meloni. O meglio, va verso la cancellazione. La quale avverrà alla fine del 2023.

L’intenzione più chiara del Governo è attuare un radicale risparmio di spesa che, nel caso del Reddito di Cittadinanza, si aggira intorno a circa 950 milioni di euro per il 2023.

Nelle disposizioni normative della legge di Bilancio su questa materia viene introdotta una “disciplina temporanea, nelle more di una organica riforma delle misure di sostegno alla povertà e di inclusione attiva, volta a revisionare l’attuale impianto della misura Reddito di Cittadinanza nei confronti dei beneficiari in età lavorativa, in modo da evitare un effetto disincentivante al lavoro”. Qui si parla dei cosiddetti “occupabili”, per i quali la percezione del sussidio è considerata, in modo indiscriminato, da questo Governo, un incentivo a non attivarsi.

Ora, secondo alcuni osservatori, la riduzione delle domande non dipende soltanto dalla “percezione” del percorso di abolizione del Reddito di Cittadinanza in via di attuazione. La riduzione sarebbe anche effetto della ripresa del mercato del lavoro, che ha segnato una crescita del numero degli occupati: con gli oltre 100mila posti di lavoro creati tra gennaio e febbraio, che superano del doppio quelli del bimestre precedente. Un incremento maggiore di circa un terzo rispetto agli stessi mesi del 2019, quelli che precedettero la pandemia.

Ma attenzione, soprattutto alle prospettive. Spiega Confindustria nella sua nota congiunturale di maggio che «il 2° trimestre 2023 si è aperto con qualche segnale debole per l’Italia, dopo il buon andamento del PIL a inizio anno. La situazione è solida nei servizi, meno in industria e costruzioni». In aprile si segnala «una frenata del fatturato in tutti i settori […] i consumi restano zavorrati dall’inflazione, gli investimenti dal costo del credito, e si è fermato l’export, data la frenata mondiale». In poche parole le prospettive sono incerte. E se lo sono per le imprese, altrettanto lo sono per il mercato del lavoro.

Creare collegamenti tra una crescita dalle prospettive incerte e la riduzione delle richieste al sostegno al reddito potrebbe essere un pericoloso abbaglio. Anche perché non è minimamente scontato che i percettori considerati, i cosiddetti occupabili, facciano parte di quelle coorti di lavoratori già professionalizzati che sono, per lo più, i soggetti ricercati dalle imprese. Una necessità talmente forte che abbiamo assistito, da parte dei datori di lavoro, a una massiccia trasformazione di rapporti a tempo determinato in occupazione stabile.

Dopo le scelte restrittive del Governo, le prospettive per coloro che sono in condizione di effettiva povertà, in questo Paese, restano incontestabilmente opache.