Finanza e Risparmio

Criptovalute: nell’ora buia finisce almeno l’incertezza fiscale

Scritto il

di Antonio Tomassini
(Professore di diritto tributario, Partner DLA Piper Studio Legale)

La legge di bilancio dice che ai fini fiscali le criptovalute sono attività finanziarie e come tutte le altre attività finanziarie sconteranno una tassazione del 26%. Finisce così (almeno) l’incertezza fiscale e questa è una buona notizia.

Come avevamo avvertito su queste colonne, non si poteva condividere la posizione dell’Agenzia delle entrate che le inquadrava come valute estere. Non sono valute, perché sono tali solo quelle che hanno corso legale; non sono estere, perché sono per definizione a-territoriali, vivendo nell’infosfera decentralizzata della blockchain. La legge di bilancio sceglie la caratterizzazione finanziaria verosimilmente perché la storia delle criptovalute ha dimostrato che esse seguono i mercati e, alla fine, persone e aziende le comprano con la speranza che il loro valore aumenti. In assenza di regole, l’intento speculativo si avvicina più alla scommessa, che può portare anche grandi delusioni.

Le norme fiscali in legge di bilancio arrivano nel momento più buio per le criptovalute, a cui serve un’urgente regolamentazione finanziaria. Qui l’orizzonte è il regolamento europeo Micar (Market in crypto assets), oggi già in bozza ma con una piena operatività non prima del 2024.

La tecnologia corre e il Legislatore arranca. Il fallimento dell’exchange Ftx (che ha coinvolto circa 1 milione di persone e generato perdite sopra i 30 miliardi) ha innescato un effetto contagio e senz’altro sfiducia; Ethereum ha lanciato una svolta green grazie a un meccanismo di validazione non più ad alto consumo di energia (aspetto critico delle criptovalute che invece utilizzano il cosiddetto proof of work, come il Bitcoin).

Tanti investitori hanno quindi preferito liquidare i propri crypto portafogli. Gli exchange sono a tutti gli effetti degli intermediari (ricevono soldi reali e li detengono per conto degli investitori in forma di criptovalute o altri token) ma non rispondono alle regole degli intermediari finanziari.

Non hanno, ad esempio, la copertura dei 100mila euro garantita dal fondo interbancario di tutela dei depositi. In altre parole, quello dell’investitore verso gli exchange è un credito come qualsiasi altro verso un soggetto privato, spesso ubicato in Paesi lontani. Questi rischi connessi alla liquidazione e alla restituzione dei denari investiti ovviamente non sussistono se le criptovalute sono detenute in wallet (portafogli) posseduti direttamente dall’investitore; per questo, spesso, in gergo si sente dire not your keys, not your coins.

Ma non facciamo l’errore di buttare il bambino con l’acqua sporca… Prima di tutto occorre “salvare” la straordinaria tecnologia a registri distribuiti che ha la sua manifestazione prima nella blockchain, un grande catasto di transazioni dagli applicativi infiniti in grado di certificare l’unicità di qualsiasi operazione.

Ad esempio le stablecoin, dopo lo Yuan digitale arriva la Rupia indiana digitale e ci sono già quelle agganciate all’oro; o, ancora, il primo crypto bond sovrano lanciato in Israele o tutte le evoluzioni che ruotano attorno ai Metaversi, che schiudono la porta ad un futuro dove identità fisica e digitale avranno sempre più interazioni e funzionano grazie a dei protocolli (smart contract) alla base degli Nft (Non Fungible Token) in grado di certificare la proprietà dei beni che vengono scambiati nei Metaversi. Questa è la novità che fa andare i Metaversi ben oltre l’intuizione di Second Life, che li aveva anticipati ma senza, appunto, questa tecnologia alla base.

In secondo luogo occorre “salvare” gli exchange buoni: da loro passa il futuro delle criptovalute e degli altri token, molti di questi ultimi, guardando all’Italia, sono iscritti nel registro OAM degli agenti e mediatori creditizi e in generale presentano garanzie di affidabilità. Potranno in futuro essere i sostituti di imposta che garantiscono il prelievo, scambiano informazioni, fanno segnalazioni antiriciclaggio.

Queste evoluzioni possono non piacere a chi vede la finanza decentralizzata (DeFi) come una finanza necessariamente anarchica, senza intermediari e costi di transazione; capiamo che rispetto alle sue origini quella di invocare l’esistenza di intermediari e regole è una contraddizione, ma tant’è.

Torniamo alla legge di bilancio. Bene la definizione fiscale ma occorrono degli aggiustamenti. Forse per distanziarsi dal concetto di valuta, il Legislatore parla sempre di “cripto attività”, ma non si tratta di neologismo e nel linguaggio giuridico occorre fare attenzione quando si prendono a prestito termini da altri ambiti.

Le cripto attività inquadrano una serie di token a tecnologia blockchain diversissimi tra loro, dai token “vuoti” (pure rappresentazioni di valore) come le criptovalute, alle stablecoin, agli utility token, ai token misti, ai non fungible, ovvero token che inglobano diritti più svariati e presentano caratteristiche molto più vicine ai beni immateriali, con rilevantissime differenze in termini anche impositivi, basti pensare all’IVA, all’IRAP e alle ritenute, soprattutto per le aziende.

Cripto attività è la traduzione di crypto assets e serve un coordinamento con quelle normative che a questi fanno riferimento, come la citata bozza di regolamento MICAR (che presenta essa stessa incertezze, ad esempio sugli NFT), con il Crypto Asset Reporting Framework (CARF) dell’OCSE e con la quinta direttiva antiriciclaggio.

Insomma serve maggiore puntualità per confinare la definizione fiscale di attività finanziarie a quelle che sono davvero tali e disciplinare gli scambi tra tipologie di token diversi tra di loro.

Va previsto un salvacondotto sul passato; essendo le prime norme in materia non si può far leva su quelle che erano solo posizioni interpretative, seppur qualificate. Pretendere il pagamento di sanzioni, pur se ridotte, non sembra appropriato.