Finanza e Risparmio

Gli aiuti all’Ucraina e quello scatto solitario della Ue sui beni russi congelati

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Di Mara Canozai

L’Ucraina ha urgente bisogno di aiuti: l’esercito è in difficoltà sul terreno, sotto l’offensiva russa; molte promesse di armi da parte dell’Europa non sono state rispettate, mentre le dotazioni militari e le munizioni si stanno esaurendo. Il presidente Volodymyr Zelensky chiede ai Paesi della Ue «cooperazione e determinazione». Alle preoccupazioni sul piano militare se ne stanno aggiungendo altre, non meno pericolose dei missili sparati dai russi: la volubilità degli Usa nel sostegno agli aggrediti; la crescente disillusione dell’opinione pubblica europea sulle sorti della guerra; le proteste degli agricoltori europei che contestano i canali preferenziali aperti da Bruxelles per l’import di prodotti ucraini, accusati di far crollare i prezzi di cereali, pollame e zucchero.

L’urgenza degli aiuti a Kiev

Servono nuovi aiuti economici e militari, e subito. Il problema è la quantità di armi e munizioni che gli europei riescono a consegnare a Kiev. L’Europa ha aumentato la produzione del 40%, ma non basta. Il 60% dei fondi della Facilità europea per la pace sono serviti per comprare materiale “made in Usa”.

Una serie di vertici, negli ultimi mesi, ha cercato di rinsaldare questo impegno, tra difficoltà, polemiche e distinguo di Paesi più populisti come Ungheria e Slovacchia. Ultima la riunione del Triangolo di Weimar (l’asse tra Francia, Germania e Polonia), che ha messo nero su bianco l’obiettivo da raggiungere con una proposta che aleggia da tempo: utilizzare i beni finanziari sequestrati alla Russia dopo l’aggressione all’Ucraina. Nel recente vertice di Berlino i tre leader Macron, Scholz e Tusk hanno detto che saranno comprate armi e munizioni per Kiev, «anche con i profitti inattesi dei beni russi congelati in Europa», visto che le sue dotazioni si stanno drammaticamente esaurendo.

Gli alleati e l’uso dei beni russi congelati

Il presidente americano, Joe Biden, è da sempre uno dei fautori più accesi di questa linea: bisogna espropriare le risorse dei fondi sovrani russi attualmente congelati nelle banche europee e americane per rafforzare il sostegno finanziario all’Ucraina. Tema su cui il capo della Casa Bianca tornerà alla carica in occasione del prossimo vertice del G7 a metà giugno in Puglia, per forzare la mano agli alleati.

Gli Usa vanno avanti spediti. Un mese fa le commissioni per gli Affari esteri del Senato e della Camera dei rappresentanti hanno approvato il Repo Act, un disegno di legge che autorizza l’appropriazione delle risorse finanziarie parcheggiate, nel corso degli anni, dalle aziende e dagli oligarchi russi nelle banche e nei fondi di investimento americani: si tratta di 5-6 miliardi di dollari, congelati immediatamente dopo l’attacco all’Ucraina nel febbraio 2022. Somme che Washington vuole trasferire al Paese aggredito (per la precisione, alla sua ricostruzione, che secondo le stime della Banca Mondiale richiederà come minimo 400 miliardi di dollari). Se il Ddl fosse convertito in legge, consentirebbe a Biden – per la prima volta nella storia degli Stati Uniti – di sequestrare beni a un Paese con cui non è in guerra.

La Federazione russa all’attacco

Mosca ovviamente non è rimasta a guardare davanti a quello che ritiene uno strappo al diritto internazionale:

«Consideriamo tali azioni non solo come un furto, ma anche come un’escalation dell’aggressione economica dell’Occidente contro il nostro Paese»

ha dichiarato la portavoce ufficiale del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova. Preannunciando azioni legali a 360 gradi per contestare il sequestro dei beni in tribunale. Con inevitabili tempi lunghi che mal si conciliano con l’urgenza del momento: finché le cause saranno pendenti, i fondi rimarrebbero congelati anche per Kiev.

Anche per questo l’Europa ha scelto finora una linea più realistica. Non espropriare i beni russi, ma in qualche modo tassarli. O meglio: utilizzarne gli interessi e i dividendi. Gli asset congelati all’estero ammontano complessivamente a 300 miliardi di euro, tra Paesi del G7, Unione Europea e Australia. Il 70% è custodito in Europa, soprattutto nel deposito belga Euroclear, che possiede l’equivalente di 190 miliardi di vari titoli e liquidità della banca centrale di Mosca: è stato calcolato che potrebbero generare almeno 15 miliardi di utili al netto delle imposte fino al 2027.

La soluzione degli extra-profitti

Il responsabile della politica estera Ue, l’Alto commissario Josep Borrell, ha proposto di utilizzare non gli asset, bensì i loro proventi: il 90% va destinato all’acquisto di armi per l’Ucraina, attraverso il fondo Ue per la pace; il restante 10% andrà trasferito al bilancio comunitario per essere utilizzato per aumentare la capacità dell’industria della difesa ucraina. Una dote complessiva da almeno 3 miliardi di euro l’anno. E il Consiglio europeo ha dato via libera. Il primo miliardo, ha detto la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, potrebbe essere disponibile per essere speso già a luglio se «saremo veloci a prendere le necessarie decisioni».

Lo scatto in avanti di Bruxelles

Una proposta soppesata, quella varata dall’Europa, ma comunque destinata a generare polemiche. Se è cauta nel contenuto, lo è meno nella forma. È vero che rispecchia del G7 dello scorsi dicembre: «Sono necessari progressi decisivi per indirizzare le entrate straordinarie detenute da soggetti privati derivanti direttamente dalle attività sovrane immobilizzate della Russia a sostegno dell’Ucraina – si legge nel comunicato finale di allora – in linea con gli obblighi contrattuali e in conformità con le leggi applicabili». Ma segna un’accelerata solitaria rispetto agli impegni presi dallo stesso Consiglio europeo solo tre mesi fa: esortava sì a prendere delle decisioni, ma con cautela, e a procedere «in coordinamento con i partner».

C’è chi attribuisce la fuga in avanti alle pressioni di qualche Paese (la Francia) per ricompattare un’Europa distratta e meno coesa; chi invece al voto europeo sempre più vicino, con l’idea di Bruxelles di prendere subito decisioni vincolanti senza aspettare i tempi della maggioranza (tutt’altro che certa) che uscirà dalle urne di inizio giugno. Fatto sta che son da mettere in conto delle conseguenze la cui portata è tutta da verificare.

Attenzione ai rischi

Il vicepresidente della Bce, Luis de Guindos, aveva già messo in guardia più volte su possibili decisioni affrettate: la Banca centrale europea è favorevole a qualsiasi aiuto a favore della Ucraina, ma sull’uso degli extra-profitti dei beni di Mosca serve una decisione a livello globale, insieme a tutti i Paesi del G7. Anche perché è una decisione che può comportare un danno reputazionale per l’euro, oggi safe currency oltre che la seconda valuta al mondo. Con effetti a lungo termine, ben al di là della guerra in corso. In un quadro geopolitico già abbastanza complicato, certe decisioni politiche rischiano di innescare ulteriori condizioni di incertezza per gli investitori.

Si potrebbero «scoraggiare i fondi sovrani, le banche centrali, le aziende e gli investitori privati ​​del Sud del mondo dall’investire in asset europei» ha spiegato l’economista Alexander Kolyandr, che cita un report di Carnegie, influente centro studi internazionale.

«Un potenziale deflusso di investimenti in euro avrebbe gravi conseguenze: un aumento dei costi di finanziamento e dell’inflazione, nonché una diminuzione delle entrate fiscali»

Non bisogna poi dimenticare le probabili ritorsioni di Mosca. Che «ha avvertito che se l’Occidente dovesse impossessarsi dei suoi beni, reagirà confiscando i rimanenti beni russi delle aziende di quelli che definisce Paesi ostili. Gli investitori occidentali nell’economia russa hanno già pagato il prezzo del congelamento dei beni: i loro fondi sono ora intrappolati in Russia».

Da nodo diplomatico ad azzardo giuridico

In un sistema internazionale, che si afferma essere basato sulle regole, le scelte sui beni russi sono un azzardo. Non ci sono precedenti in materia. Il sequestro di beni di tale entità – per quanto temporaneo, e legato alla durata della guerra – non è previsto dal diritto internazionale. I Paesi finora si sono scervellati per capire cosa fare rispettando le leggi. Un modo legale poteva essere quello di passare attraverso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ma la Russia è un membro permanente, con potere di veto, così come lo è il suo partner, la Cina, e quindi la strada è preclusa. Un’altra passerebbe attraverso un accordo internazionale di pace, che imponga riparazioni alla Russia, come lo fu il Trattato di Versailles alla fine della prima guerra mondiale. Ma della guerra non si vede ancora una fine, e i soldi per l’Ucraina – tanto per le armi quanto per la ricostruzione – servono ora.

Non solo Mosca ha detto e ripetuto che contesterà qualsiasi confisca nei tribunali internazionali. L’eventuale riutilizzo degli asset senza il suo consenso non è più una mera questione diplomatica, ma potrebbe costituire un precedente geopolitico, con impatto sulla stabilità del sistema finanziario globale. Si prenda il Repo Act: di fatto segnala a tutti i Paesi con cui gli Usa hanno relazioni tese che i loro asset delle banche centrali possono essere confiscati in certi casi. Ad esempio quelli della Cina in caso di un attacco a Taiwan. E quei Paesi saranno portati a spostare le loro riserve in centri bancari neutrali e in valute diverse dal dollaro e dall’euro, la cui rilevanza a quel punto si ridurrebbe su scala mondiale.