Finanza e Risparmio

Tassi e inflazione, risparmio sotto assedio

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di Mariarosaria Marchesano

Che gli italiani siano un popolo di grandi risparmiatori rischia di essere ormai più una leggenda che realtà. Se è vero che lo stock di ricchezza complessiva detenuta, in termini di case, terreni, conti correnti e investimenti finanziari, è ancora tra i più alti in Europa in rapporto alla popolazione e al prodotto interno lordo (10.400 miliardi, pari a 176mila euro pro capite), è anche vero che la propensione al risparmio è in declino da anni e che nel primo trimestre 2023 si è ulteriormente ridotta al 5,3% del reddito disponibile, per effetto del trasferimento dello choc energetico sui prezzi dei beni di consumo, come osserva Bankitalia nella sua ultima relazione sulla stabilità finanziaria. Il calo, rispetto al trimestre precedente è stato del 2%, a conferma che l’inflazione, come osserva al Settimanale Giovanna Paladino, direttrice del Museo del Risparmio, «è una vera e propria tassa, solo che molti non sanno che la stanno pagando».

Nel 1990 l’Italia aveva una propensione al risparmio (21,7%) che era il doppio della media dei Paesi europei: ebbene, questa percentuale si è progressivamente ridotta fino a collocarsi, oggi, ben al di sotto dei livelli di Francia e Germania. Tralasciando i motivi storici, individuati dall’Ocse nella scarsa crescita economica del Paese, gli italiani si presentano oggi come un popolo che deve rompere il salvadanaio per pagare le bollette. «L’inflazione sta progressivamente riducendo il potere di acquisto delle famiglie, che non possono scaricare a valle i rincari – prosegue Paladino – ma ovviamente colpisce di più chi vive di reddito da lavoro dipendente, e non è una sorpresa considerando che per diverse categorie i rinnovi dei contratti sono fermi. Dunque, c’è una fascia di famiglie che prima risparmiava, anche poco magari, e adesso non lo fa più perché deve far fronte all’incertezza economica».

Diverso è il discorso per chi dispone comunque di liquidità e vede un’erosione annua che è pari al tasso di inflazione quando sceglie di tenerla ferma sui conti correnti, anche se a volte questa scelta è una necessità. «Se si esclude il periodo pandemico, in cui c’è stata una forma di risparmio forzata, siamo tornati ai livelli pre Covid – sottolinea Paladino – con l’aggravante che l’inflazione sta impattando sui depositi accumulati come un’imposta non percepita e, purtroppo, le recenti turbolenze sui mercati generate dai crac bancari americani hanno alimentato un po’ la sfiducia verso gli investimenti finanziari».

Da inizio anno, infatti, c’è stato un brusco calo della raccolta di risparmio da parte dei fondi d’investimento. In particolare, in marzo la raccolta dell’industria del risparmio gestito – che in Italia vale 2.200 miliardi – è stata negativa per circa 6 miliardi, risultato determinato soprattutto dal calo di due grandi gruppi: Generali e Poste italiane. Questo fenomeno, però, si spiega solo in parte con il peggioramento delle condizioni delle famiglie perché, concordano gli analisti, esiste un’altra causa: la concorrenza crescente dei titoli di Stato, non solo di quelli ordinari, ma anche di  quelli indicizzati all’inflazione, che hanno fatto il pienone nelle ultime emissioni, e adesso anche dei nuovi BTp Valore, che il Mef emetterà dal 5 al 9 giugno e che sono stati pensati proprio per il retail (durata quattro anni, tassazione agevolata, zero commissioni e premio fedeltà per chi li tiene fino alla fine).

«Va detto che i mercati azionari hanno sempre battuto l’inflazione – osserva ancora la direttrice del Museo del Risparmio – ma è vero che c’è un ritorno d’interesse per i titoli di Stato. La regola d’oro per gli investimenti, comunque, resta quella della diversificazione,  per proteggersi dai rischi». Di fatto, tanti italiani hanno riscoperto la passione per i BTp (ma anche gli investitori istituzionali, visto che con gli attuali rendimenti rappresentano un asset di bilanciamento del rischio azionario nelle gestioni patrimoniali), dopo più di dieci anni di cedole sotto l’1%.

E questo ha interrotto un po’ il feeling che si era creato con i mercati. Nel 2021, infatti, la ricchezza delle famiglie era tornata a beneficiare dei guadagni in conto capitale legati soprattutto ad azioni e quote di fondi comuni, con una crescita delle attività finanziarie detenute del 6% rispetto al 2020. Sembrava l’anno della svolta verso forme di risparmio più strutturate, come nel resto dei Paesi europei. Poi è arrivato il 2022, con la guerra in Ucraina e lo shock energetico che ha generato una forte inflazione. La Bce ha cominciato ad aumentare i tassi e l’impatto sullo spread BTp-bund si è subito fatto sentire. La forchetta si è progressivamente allargata fino ai 190 punti base attuali, che corrispondono a un rendimento dei titoli decennali ordinari del 4,2%: con un’inflazione al 7-8% è comunque negativo, ma è pur sempre qualcosa rispetto a tenere i soldi sul conto corrente.

Di recente, poi, i nuovi scossoni sulle Borse provocati dalle turbolenze bancarie hanno rinfocolato i timori di perdite sugli investimenti finanziari. Così si sono cominciati a vedere i deflussi dalle polizze vite (la crisi di Eurovita non ha certo aiutato), ma un po’ anche da altre forme di risparmio. «C’è un tema di fiducia che deve essere ristabilito insieme con un’offerta più variegata e vicina ai piccoli risparmiatori – conclude Paladino – Ci vorrebbe uno sforzo da parte di tutto il sistema, quindi operatori privati e istituzioni pubbliche, per innovare e arricchire il panorama dei prodotti finanziari tenendo conto anche del vincolo dei costi, che spesso scoraggia le famiglie a più basso reddito verso forme di risparmio gestito».

Il costo del risparmio in Italia rappresenta un tema caldo sul tappeto, visto che la Commissione europea vorrebbe abolire le commissioni di retrocessione, pratica molto diffusa e di cui beneficiano le reti di vendita ma che appesantiscono, secondo la Commissione, di oltre un terzo la spesa finale per chi investe. Un approccio contestato dagli operatori professionali, che rivendicano invece l’importanza del servizio offerto da reti e promotori proprio ai piccoli. Ma l’ora della verità è vicina: la decisione dell’Europa è attesa per il 24 maggio.