Finanza e Risparmio

Tim e la caduta “senza rete”: ecco cosa può succedere ora

Scritto il

Crolli in Borsa a ripetizione con tanto di minimo storico, passaggi di mano di grandi pacchetti azionari, la discesa in campo della Consob, un piano industriale nella bufera, debiti che spuntano a sorpresa, l’allarme dei sindacati che chiedono l’intervento del Governo, vertici straordinari del consiglio d’amministrazione, i contrasti tra soci sulla vendita della rete. Ma che cosa sta succedendo dentro la Tim, la principale azienda di telecomunicazioni in Italia?

Sembrano gli ultimi fuochi di una vicenda emblematica della storia industriale italiana, su cui sono scorsi fiumi d’inchiostro: chi l’ha definita «una catena infinita di errori», chi «il più grande scempio della storia industriale italiana degli ultimi 25 anni», chi ancora la «vittima del potere politico, da cui non è mai riuscita ad affrancarsi».

Una lunga storia travagliata

Magari cambiare nome non sempre porta bene: nata come Stipel nel 1929, poi diventata Sip, Telecom Italia e infine Tim, è una società che ha comunque avuto un ruolo da protagonista nel processo di modernizzazione del nostro Paese. È passata attraverso la «madre di tutte le privatizzazioni» trent’anni fa, ha conosciuto una serie controversa di passaggi di mano e di rilanci falliti, tra offerte pubbliche di acquisto e scalate a debito, i molti casi con l’ingerenza della politica, in molti altri con la sua assenza.

Così quello che a fine anni ’90 era il sesto gruppo di tlc a livello mondiale e primo in Europa per innovazione tecnologica, oggi è un’azienda carica di debiti e alle prese con un’emorragia di clienti, protagonista di performance borsistiche che fanno i titoli dei giornali. A Piazza Affari il titolo Tim veleggia intorno a 0,20 euro, dopo una discesa ininterrotta da settembre 2023, da quando le speranze di rilancio suscitate dalla comparsa di Kkr, interessato a rilevare la rete fissa, lo avevano sospinto a 0,33 euro. Poi a inizio novembre il cda ha approvato (a maggioranza 11-3, contrari gli indipendenti) l’offerta vincolante del fondo statunitense per NetCo, lo spin-off della società di tlc che comprende la rete fissa, oltre a Fibercop, azienda della fibra di cui il fondo peraltro è già socio.

Il titolo ai livelli minimi

Ma il titolo ha continuato a scendere, man mano che si andavano precisando i contorni dell’operazione di scorporo, fino a crollare a un prezzo che non ha senso, secondo gli analisti: il mercato valuta infatti

«La sola partecipazione in Tim Brazil più dell’intera Tim, con una valutazione implicita negativa per oltre 1 miliardo sul business domestico – sottolinea Equita Sim – uno scenario che a nostro avviso ha poco senso vista la solida struttura finanziaria del gruppo post cessione di NetCo, ovvero due volte il rapporto debito/ebitda atteso al 2024»

Gli ultimi scivoloni in Borsa sono stati accompagnati da volumi record di scambi, pari al 30% del capitale ordinario in tre sedute. La Consob, organo di vigilanza del mercato, ha acceso un faro per controllare che non ci siano movimenti anomali dietro l’ondata di compravendite. Chi volesse scalare o fare a pezzi definitivamente l’incumbent nazionale potrebbe persino guadagnarci, considerato che non tutti gli asset sono protetti dal golden power. Lo stesso ceo del gruppo, Pietro Labriola, ha insinuato la possibilità che ci sia «qualcosa di non organico, con volumi di scambi particolarmente alti». Il Governo non è rimasto indifferente: «Ci stiamo lavorando, è un dossier molto complesso», ha detto la premier Giorgia Meloni.

Il piano della discordia

La fonte dei guai più recenti è il piano industriale per il triennio 2024-2026 che il cda dell’azienda ha approvato all’unanimità lo scorso 6 marzo, con gli obiettivi di tagliare il debito e tornare alla crescita profittevole. Il piano – per ironia della sorte battezzato Free to run, “Libera di correre” – è stato accolto l’indomani tra i dubbi dalla comunità finanziaria, con un crollo in Borsa di cui ancora non si è spenta l’eco: il -24% del titolo ha bruciato in un solo giorno 1,4 miliardi di capitalizzazione.

Un piano giudicato troppo ambizioso: il gruppo prevede una crescita dei ricavi annua del 3% medio dai 14,4 miliardi pro forma del 2023, e un aumento dell’8% annuo del margine operativo lordo after lease dai 3,5 miliardi di euro del 2023. Al termine, Tim potrebbe essere in condizione di tornare al dividendo: «opportunità di remunerazione degli azionisti», si legge nelle slide di presentazione del piano.

Ma il contesto è tutt’altro che favorevole, la concorrenza mostra i denti ed erode i margini: è imminente l’annuncio delle nozze tra Fastweb e Vodafone, con il colosso svizzero Swisscom (che ha il 100% di Fastweb) pronto a investire 8 miliardi in Italia per rafforzarsi nel segmento business, e attraverso Vodafone, fare un’offerta convergente e infrastrutturata anche sul mobile.

Verso l’assemblea

Gli analisti sono scettici sulla possibilità di Tim di ridurre il debito con lo spin-off della rete. Oltretutto fino al closing della vendita, continuerà a “bruciare cassa”, secondo quanto spiegato durante l’incontro con la comunità finanziaria: ciò potrebbe comportare un indebitamento aggiuntivo di 1,5 miliardi di euro entro la fine dell’anno. La generazione di cassa poi, tutta spostata a fine piano, espone l’azienda a nuovi rischi.

Con un vertice straordinario domenica 10 marzo il Cda ha provato a tranquillizzare i mercati e anche i soci: i principali sono la francese Vivendi (23,75%) e Cassa Depositi e Prestiti, quindi il ministero dell’Economia (9,81%), oltre a investitori istituzionali con quote minori. È stato ribadito il pieno sostegno alla strategia delineata dall’ad Labriola ed è stata promessa una comunicazione integrativa per dissipare le incomprensioni. Va detto che il cda è in scadenza, è già stata presentata una nuova lista del board e tra un mese (il 23 aprile) l’ultima parola spetta comunque agli azionisti in assemblea. E il risultato è tutt’altro che scontato: Labriola sta facendo di tutto per convincere Vivendi (che avversa la vendita a Kkr) a essere della partita e a non affossarla; c’è da tenere d’occhio il movimentismo dei fondi speculativi. E il Governo? Cercherà un accordo con i francesi o seguirà la via della cessione della rete, che i mercati hanno bocciato senza appello?

Le integrazioni al piano

Tornando all’oggi, il direttore finanziario di Tim, Adrian Calaza ha ribadito che il piano non mira a fornire numeri irrealistici, ma garantisce flessibilità finanziaria: l’obiettivo ultimo è di ridurre il rapporto debito/Ebitda a 1,6-1,7 volte entro il 2026, rispetto all’attuale rapporto di 3,8 volte. La vendita di NetC contribuirà a ridurre l’indebitamento di poco più di 14 miliardi. E lunedì 11 Tim ha fornito un’integrazione al piano: cassa positiva (per 500 milioni, 800 milioni se normalizzato) nel 2026 e debito nel 2024 atteso a 7,5 miliardi, dopo la vendita della rete a Kkr. Numeri che non hanno rassicurato il mercato, a giudicare dal nuovo calo in Borsa.

Nel prossimo fine settimana partirà ufficialmente un road show a Milano sulla nuova strategia Free to run: in una serie di incontri one-to-one con gli investitori il top management spiegherà i dettagli e i modi con cui intende centrare i target. La prossima settimana si proseguirà con Londra e Parigi.

«Non tutti capiscono le nostre strategie e non ci sono le giuste reazioni del mercato»

ha sottolineato il ceo Labriola, assicurando «manterremo le promesse». Per ora a Piazza Affari regna una calma apparente.

Il nodo della vendita della rete fissa

Ma al di là della Borsa, non convince la strategia di fondo, e quindi la vendita della rete, tutt’altro che risolutiva – secondo le critiche – dal punto di vista finanziario: i numeri dicono che quest’anno il debito sarà più alto rispetto a quello registrato alla fine del 2023, e nel 2025 il cash flow netto sarà pari a zero, mentre lo si prevede di 0,5 miliardi di euro nel 2026. Manca poi una prospettiva di sviluppo generale: con lo scorporo, Tim si ridurrà praticamente a un call center, è stato osservato: un reseller commerciale della rete ceduta a Kkr, che sarà libero di offrire eguali condizioni ai concorrenti.

La cessione della rete ha implicazioni su più fronti. Le telecomunicazioni, con acciaio e trasporti, costituisce la spina dorsale di un sistema industriale. E in Italia sappiamo bene le difficoltà in cui si dibattono i campioni di questi settori, l’ex Ilva e la vecchia Alitalia. Tim non fa eccezioni. Anche dai sindacati arriva un “no” secco, come ha detto il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini:

«È una scelta sbagliata la separazione e la vendita della rete. Fare lo spezzatino dell’azienda è una follia. È esattamente il contrario di quello che serve. Lo abbiamo sempre detto e non ci stanno ascoltando. Il governo continua a fare orecchie da mercante»

Rete strategica e garanzie

Last but non least, c’è pure una questione di sovranità nazionale. Il Governo ha dato via libera all’operazione. Ma vendere a un soggetto straniero una rete fissa di tlc non sono bruscolini: è una infrastruttura che risulterebbe cruciale in tempi di guerra, non solo per motivi antitrust o di golden power. Nel dare il suo via libera alla cessione Palazzo Chigi ha fissato «un ruolo del Governo nella definizione delle scelte strategiche, vengono assicurati tutti i presidi essenziali e garantita la supervisione allo Stato di tutti gli aspetti inerenti la sicurezza, la difesa e la strategicità della rete e dei relativi asset». Ma le incognite restano: ad esempio, il Governo non ha posto alcun veto in capo al fondo americano Kkr a non cedere in tempi successivi ad altri la rete.