Finanza e Risparmio

Voglia di small cap tra le banche d’affari: le italiane piacciono

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di Mariarosaria Marchesano

Il 2022 è stato l’hannus horribilis delle small cap, cioè le imprese quotate con bassa capitalizzazione: in Europa perdono quasi un terzo del loro valore da inizio anno (l’indice aggregato di settore fa meno 30%) e rispetto alle large cap stanno andando decisamente peggio. Insomma, è l’anno peggiore degli ultimi decenni perché, come spiega la banca d’affari Bofa-Bank of America, le small cap sono l’asset class che più sta prezzando il rallentamento economico.

Proprio per questa ragione, però, ritiene Goldman Sachs, tali imprese sono a sconto, hanno cioè un valore sul mercato azionario che è tra il 10 e il 30 per cento più basso rispetto ai loro valori fondamentali. E Kepler Chevreux fa notare come lo sconto delle small cap europee rispetto a quelle americane sia ai massimi storici.

E dunque? Per come ragionano gli investitori finanziari, è adesso il miglior momento per investire nelle piccole società del Vecchio Continente poiché hanno quasi toccato il fondo sui listini e nei mesi a venire hanno spazi di risalita più ampi rispetto alle grandi società. Jp Morgan segnala, inoltre, quattro buoni motivi:

  1. le piccole tendono a fare molto meglio del previsto nelle fasi recessive;
  2. se dovessero continuare ad andare male in Borsa gli ulteriori ribassi relativi sarebbero limitati;
  3. il momento del ciclo in cui queste società offrono il massimo dei rendimenti è durante i primi 12 mesi successivi a una correzione del mercato legata alla recessione;
  4. le prospettive a medio-lungo termine per le small cap non sono mai sembrate migliori.

In questo panorama, le small cap italiane, alle prese con crisi energetica e prospettive di recessione, stanno mostrando un buon grado di resilienza che le rende attrattive nei confronti degli investitori. Basta guardare i dati: a parte il segmento Star di Piazza Affari, che presenta una perdita da inizio 2022 pari al 34%, tutti gli altri indici delle Pmi subiscono cali più contenuti rispetto alla media europea: Ftse Italia Small cap -17,8 per cento; Ftse Italia Mid cap -27 per cento; Ftse Italia Pir Pmi – 24 per cento e Euronext-Growth-Milan – 21,6 per cento.

«Il merito è di come sono gestite, spesso hanno alla guida un imprenditore con un orizzonte di lungo periodo, disposto a sacrificare i guadagni a breve per raccogliere i frutti nel tempo», spiega al Settimanale Gianluca Pediconi, partner di Momentum Alternative Investment, società di gestioni patrimoniali svizzera che investe il 50 per cento dei suoi capitali sulle Pmi europee e il 50 per cento su quelle italiane. Momentum, che di recente ha partecipato a un road show di 15 società tricolori promosso da Ir Top Consulting a Lugano, è dell’idea che la gestione familiare, tante volte vista come un limite per lo sviluppo aziendale, rappresenti invece un valore aggiunto quando esprime visione strategica e una governance trasparente.

«Basiamo le nostre scelte d’investimento sui risultati ma anche sul rapporto di fiducia che si riesce a creare con i capi azienda», continua Pediconi. «In tante realtà italiane abbiamo trovato competenze, lungimiranza, sensibilità ai temi della sostenibilità maggiori di quanto si possa immaginare. Tutto questo è generalmente espresso dall’imprenditore che ha fondato l’attività economica e dai suoi figli, ma spesso funzionano bene anche le imprese familiari con un amministratore delegato esterno».

Il paradosso, assicura Pediconi, è che nei grandi gruppi in cui i manager sono remunerati con stock option sulla base di risultati trimestrali spesso si fa più fatica a capire quale sia la visione strategica a cui si ispira la loro gestione e che idea hanno dello sviluppo futuro, delle opportunità da cogliere e degli investimenti da realizzare in un’ottica temporale più ampia.

«Ovviamente, dipende dai singoli casi, ma a noi piace proprio l’azienda in cui l’imprenditore è presente – sottolinea – soprattutto quand’è un visionario e si vede che ha un’idea di come affrontare il mondo che cambia. Su temi come la sostenibilità, per esempio, le aziende italiane sono più avanti di quanto si possa immaginare, solo che spesso non vengono valorizzate. Quello su cui presentano margini di miglioramento è l’autonomia finanziaria: sono ancora troppo dipendenti dalle banche, non capendo che l’accesso al mercato dei capitali garantisce loro maggiore capacità decisionale».

Un altro dato interessante sulle small cap riguarda la capacità di generare rendimenti superiori alla media di mercato.

Sempre Bofa ha dimostrato che nel periodo che va dal 2015 al 2021 i fondi che investono nelle small cap sono capaci di generare più “alfa” e cioè rendimenti aggiuntivi rispetto ai fondi che investono nelle large cap.

Ma non esiste anche un tema di maggior rischio per chi investe? «Per quanto ci riguarda, no: le small cap non sono start up, spesso hanno storie consolidate alle spalle e attraverso il confronto costante con i capi azienda riusciamo quasi sempre ad avere un monitoraggio del rischio che, comunque, quando si investe c’è sempre come ci possono essere rendimenti anche molto soddisfacenti”.