Inchieste

Aziende guru 4.0 tra social e sociale

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di Paola Stringa

La comunicazione aziendale oggi è centrale per la sopravvivenza, la gestione, l’innovazione del business e per definire il posizionamento dei brand e il loro storytelling. Non solo: le grandi crisi globali, dal Covid alla guerra russo ucraina, hanno spinto le persone a chiedere sempre di più un ruolo attivo alle aziende, come attori sociali le cui scelte incidono, assieme a quelle dei governi e delle altre organizzazioni pubbliche, sulle comunità, sui territori, sul futuro del pianeta, sui grandi cambiamenti dell’umanità.

In un contesto sociale e politico in cui i riferimenti ideologici veicolati dalle istituzioni tradizionali rischiano di apparire ogni giorno più fragili, le aziende rappresentano dei player sempre più centrali all’interno dei processi di costruzione delle identità sia individuali sia collettive.

«Nel Novecento gli Stati si erano attrezzati per controbilanciare il potere crescente delle aziende, oggi quel patto non c’è più – ragiona Alec Ross, futurista ed esperto di politiche tecnologiche, che sul ruolo delle organizzazioni nella vita delle comunità e dei territori ha compiuto parecchie analisi, anche sull’Italia – Nessuna linea separa più Wallmart dal Congresso. È sempre più, dunque, nell’interesse delle multinazionali, comportarsi come nazioni. Proprio perché le persone guardano sempre di più alle aziende piuttosto che ai partiti, come punto di riferimento».

Come evidenzia un recente report di EY (‘Quali orizzonti aprirà la comunicazione corporate?’), realizzato in collaborazione con SWG Social, oltre a promuovere prodotti e servizi, la comunicazione d’impresa oggi, con tutti i suoi molteplici canali e le sue varie sfaccettature, deve dunque assumere una funzione sempre più centrale nella definizione del capitale reputazionale del brand, legandosi ai processi decisionali e strategici. Può addirittura agire da acceleratore di trasformazione, se ben gestita.

Quel che ne deriva, è che ormai la funzione è entrata a pieno titolo in molti contesti aziendali, nei ruoli di vertice e nei bilanci consolidati, in pochi casi, il piano di comunicazione è già parte del piano industriale.

Del resto gli ‘intangible’ sono diventati così concreti e importanti da essere valutati voci all’interno dei bilanci e la comunicazione è in grado di trasformarli in asset tangibili che alimentano il processo di trasparenza.

Comunque, generalmente, la comunicazione è più integrata, più strategica e soprattutto, più al passo con il dibattito pubblico: quando riesce a intercettarlo, costruisce percorsi di affermazione di nuovi stili di vita, oltre che di consumo, intercetta bisogni che nessuno ha saputo ancora leggere, indirizza target allineati alla proposta valoriale del proprio brand.

L’evoluzione digitale ha cambiato il modo in cui si fa corporate communication: le nuove strategie di contatto con i vari tipi di portatori d’interesse sono sempre più social, questo ha generato dei vantaggi e degli svantaggi, come ogni cambiamento.

Se le campagne pubblicitarie, oltre che più flessibili, sono diventate più precise, grazie alla possibilità di identificare e targetizzare a priori il pubblico a cui rivolgersi, un tempo impossibile su media come tv, radio, carta stampata, investire sulla reputazione è diventato un lavoro a tempo pieno, 24/7.

La reputazione si costruisce infatti attraverso un sistema mediatico complesso, integrato e in espansione, che va dai media tradizionali ai social media, mentre cresce l’attenzione riservata agli ‘owned media’ (canali aziendali proprietari), in linea con il processo di disintermediazione che sta interessando, da alcuni anni, tante filiere. Anche perché L’Edelman Trust Barometer 2022 riporta che il 65% degli italiani fa del proprio datore di lavoro la fonte di informazioni più autorevole e il 72% ritiene che i CEO dovrebbero informare e alimentare il dibattito pubblico sui temi sociali.

Mentre l’85% del campione della ricerca EY-SWG trova che sia fondamentale il contributo della comunicazione per creare fiducia in azienda e il 54% ha riscontrato un aumento di attenzione verso la comunicazione, legato ai fattori esogeni degli ultimi anni.

Indicatori che complessivamente confermano come la fiducia sia al centro della relazione con i dipendenti, oltre che con tutti gli altri stakeholder, costantemente alimentata grazie alla comunicazione, che connette il brand con gli utenti, che si tratti di consumatori o di altre aziende.

Non esiste più, infatti, una suddivisione proprio netta tra B2B e B2C: il primo a dirlo è stato Bryan Kramer, il pubblicitario americano che ha avuto l’intuizione della comunicazione Human to Human.

There is no B2B or B2C: It’s Human to Human.

La fiducia e la relazione sono oggi, dunque, al centro anche del rapporto B2B. La comunicazione deve quindi, in questo senso, lavorare per trasmetterli come valori fondanti, mentre i confini diventano sempre più labili.

I social media, considerati canali utili solo per gestire il rapporto con i consumatori, si stanno sempre di più configurando come uno strumento altrettanto necessario per gestire la reputazione aziendale e le relazioni con fornitori e altri portatori d’interesse.

Si tratta di una relazione che tende a non essere più improntata solo ad un linguaggio tecnico e ad informazioni essenziali, ma anche alla creatività, imprescindibile pure per raggiungere obiettivi B2B.

I progetti di comunicazione diventano così sempre più trasversali, sia se orientati al business, sia se orientati al consumatore e, se i post su LinkedIn tendono a rivolgersi sempre di più anche all’utente finale, Instagram e Facebook diventano i nuovi palinsesti della comunicazione B2B, con un approccio più consapevole, che considera i gruppi e le community come una risorsa per fare campagne di microtargeting e profilare attentamente il pubblico.

«Dalla violenza al climate change il nuovo terreno di confronto»

La comunicazione che i brand portano avanti oggi è sempre più politica. Lungi dal venderci solo biscotti, assorbenti o saponette, cercano di coinvolgere i consumatori dentro a community che, al di là dell’esperienza di acquisto, li ingaggiano in progetti valoriali o li spingono a supportare cause specifiche.

«I brand ci parlano di valori, come un tempo facevano soltanto i partiti e i movimenti politici con i loro potenziali elettori. Prendono posizione nei confronti di un cambiamento sociale, boicottano scelte, o si spendono per obiettivi in cui credono» spiega Marco Cacciotto, consulente politico, membro del direttivo dell’Associazione Europea EAPC (European Association of Political Consultants), coach di candidati, dirigenti d’imprese e associazioni. Succede perciò che le aziende avviino campagne di sensibilizzazione su temi sensibili come la violenza contro le donne, l’inquinamento degli oceani, la causa LGBT, il cambiamento climatico…

Cacciotto descrive il brand activism come una forma di evoluzione estrema della Csr (corporate social responsability) e anche come risposta ad un indebolimento dei progetti politici, incapaci di ingaggiare i cittadini come facevano un tempo e di convogliarli sulle classiche fratture sociali su cui è stata costruita tutta l’offerta partitica novecentesca (la frattura capitale/lavoro, laici/cattolici, nord/sud).

Sostenere cause on demand, a seconda dello spirito dei tempi e della gerarchia delle tematiche percepita dalle masse, tuttavia, non è esattamente come costruire una narrazione coerente attorno ad una proposta valoriale complessa, con un impianto socioculturale di riferimento. Piuttosto è strumentale a generare awareness, consenso e, in definitiva, ad aumentare il numero dei consumatori e delle vendite, diventando sempre più popolari e attrattivi rispetto ai competitor.

In alcune aziende sono già state, a tal fine, individuate nuove figure a presidiare la funzione, i Cpo (Chief political officer), dato che, prendere posizione, soprattutto per le grandi aziende, con brand iconici, portatori di valori ben presenti nell’immaginario collettivo, sta diventando una necessità e una forma di responsabilità alla quale non possono più sottrarsi.

Gli interlocutori, del resto, sono sempre di più (cittadini, istituzioni, associazioni, Public affairs) in un mercato globalizzato dove però permangono elementi culturali, etnici e antropologici che non possono essere sottovalutati nell’uso del linguaggio e nella progettazione di una campagna.

«La geopolitica – conclude Cacciotto – è rientrata prepotentemente nelle agende e una crisi locale, o regionale, in qualunque parte del pianeta può arrivare a intaccare i risultati aziendali».

Se i protagonisti dellinnovazione sono i dipendenti

Intranet, newsletter, canali social connessi alle attività aziendali: la comunicazione interna come fattore decisivo per la diffusione dell’identità e dei valori e quindi per il successo finale.

Quando parliamo di comunicazione interna, ci riferiamo a quell’insieme strategico di processi connessi a tutte le attività aziendali, dalla produzione, alla gestione del personale, dall’organizzazione all’innovazione, dal marketing alle vendite, dalla pianificazione al controllo.

Poiché, come si dice in letteratura manageriale, i dipendenti sono i primi stakeholder ai quali un’azienda deve riferirsi e con i cui interessi deve relazionarsi, la comunicazione interna è, a tutti gli effetti, il punto di riferimento di tutte le policy aziendali, nessuna esclusa e deve poter scorrere su infrastrutture funzionanti e ben connesse, sia dalla base verso i vertici (bottom-up), sia dai vertici alla base (top down), sia a livello orizzontale, soprattutto da quando si è diffusa, in molte organizzazioni, un tipo di leadership più partecipata, che implica una maggiore condivisione di progettualità e responsabilità.

Dopo la comunicazione esterna, dunque, finalmente, anche la comunicazione interna è entrata pian piano nelle strategie aziendali per supportarne la crescita, i cambiamenti, l’innovazione e affrontare l’eventualità di una crisi, con strumenti specifici. Verificare il livello di circolazione delle informazioni, di engagement, di benessere, è importante, oggi, come misurare i risultati delle performance.

Usando gli strumenti giusti si possono infatti trasmettere messaggi efficaci e aiutare i dipendenti a capire i valori e la strategia aziendale, motivandoli e coinvolgendoli. I tool di base utilizzati sono la intranet aziendale che contiene informazioni di servizio, ma anche il racconto costante dei risultati della società sul mercato e verso le comunità di riferimento; newsletter periodiche; canali social, da LinkedIn a Instagram; pubblicazioni e libri bianchi su attività specifiche. E poi eventi, convention, giornate tematiche, riunioni.

Tuttavia, ci sono ancora aziende che tendono a trascurare la comunicazione interna rispetto a quella esterna, che sembra apparentemente garantire maggiore evidenza reputazionale, dimenticando quanto possa essere d’aiuto nella diffusione di valori e costruzione della propria identità.

«Non esiste messaggio che esca coerentemente dall’organizzazione che non sia quello che per primo è stato condiviso, compreso e metabolizzato da tutti i membri: prima di tutto il team deve incarnare i valori della narrazione aziendale in modo genuino e naturale» sintetizza Daniela Bavuso, consulente di strategie d’impresa e di value design.