Inchieste

Dalla durata agli accordi, i paletti del “telelavoro”

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di Veronica Schiavone

Tutti lo hanno sempre chiamato “smart working” ma di smart aveva molto poco. Soprattutto durante la pandemia, perché la possibilità di svolgere la propria prestazione lavorativa fuori dall’ufficio e senza vincoli di orario veniva via via imbrigliata da paletti, lacci e lacciuoli, spesso generati dalla diffidenza dei datori di lavoro. E allora sarebbe stato più corretto chiamarlo “telelavoro” o “lavoro a distanza” questo strumento emergenziale che ha avuto il merito di mettere milioni di italiani al riparo dal Covid facendo al contempo comprendere alle imprese che un altro modello produttivo era possibile.

Da emergenziale, o semplificato (e per questo senza la necessità di un preventivo accordo con l’azienda), il lavoro agile è diventato strutturale, sia nel privato che nel pubblico impiego. Lo smart working semplificato è vivo più che mai (almeno fino al 30 giugno, ma con la possibilità di proseguire fino a fine anno) e al suo fianco si moltiplicano gli accordi quadro aziendali. La Pa sta facendo lo stesso.

Smart working semplificato

Lo smart working semplificato è ancora possibile solo per determinate categorie: innanzitutto i lavoratori fragili (per motivi di salute), che sia nel pubblico impiego sia nel privato avranno diritto a fruirne fino al 30 giugno. Il decreto Milleproroghe 2023 ha dato ai fragili tre mesi di smart working in più grazie a un emendamento che ha stanziato 16 milioni, necessari a superare le obiezioni del Mef, contrario a proroghe soprattutto per i costi. Lo smart working fino al 30 giugno sarà un diritto anche per i genitori di figli under 14, ma questa volta non per tutti (solo per quelli che lavorano nel privato e a condizione che nel nucleo familiare non ci sia un genitore non lavoratore o un altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito).

Smart working ordinario

La disciplina di riferimento è la legge 81/2017 che mette al centro l’accordo tra il lavoratore e l’azienda: un accordo individuale spesso riproduttivo di un accordo quadro aziendale concordato tra l’azienda e sindacati. L’accordo dovrà mettere nero su bianco tutti gli aspetti fondamentali del lavoro agile, i doveri e i diritti del lavoratore a cominciare da quello alla disconnessione. La prestazione lavorativa dovrà avvenire senza vincoli di orario o di luogo di lavoro. I lavoratori in smart working avranno gli stessi diritti di quelli che svolgono attività non “smartabili” a cominciare dai buoni pasto, ove previsti, fino alla tutela per infortuni e malattie professionali. Il lavoro agile non potrà sostituire del tutto quello in ufficio: gli accordi aziendali richiedono almeno un giorno a settimana di lavoro in presenza, anche se in media le intese concluse in questi mesi prevedono 2-3 giorni di lavoro in ufficio a settimana.

Così nel pubblico impiego

I contratti del pubblico impiego, sottoscritti nel 2022 per il triennio 2019-2021(funzioni centrali, funzioni locali e sanità; la scuola sta trattando) prevedono il riconoscimento del lavoro agile che, come nel privato, ruota attorno all’accordo individuale datore-dipendente. Il lavoro agile è distinto da quello da remoto, dove lo statale sarà soggetto ai medesimi obblighi derivanti dallo svolgimento della prestazione lavorativa presso l’ufficio: quindi limita i margini di manovra del lavoratore perché sarà tipico di quelle attività in cui è richiesto «un presidio costante del processo» e «sussistono i requisiti tecnologici che consentano la continua operatività». Rispetto al predecessore Brunetta, il ministro della Funzione pubblica Zangrillo ha più volte tranquillizzato gli statali affermando di non aver preclusioni: «La Pa non deve differire dalle altre organizzazioni ed è sbagliato partire dal presupposto che nella Pa il lavoro agile non possa funzionare».