Inchieste

Energia, i rischi di una guerra regionale

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Inchiesta a cura di Federico Bosco 

La guerra tra Hamas e Israele ha il potenziale di ridefinire equilibri di potenza del Medio Oriente, ma comporta anche delle implicazioni per l’economia globale, aggiungendosi alla lunga lista di shock che si sono presentati negli ultimi quattro anni: il Covid-19, l’inflazione che ne è seguita, l’invasione russa dell’Ucraina, la crisi dell’energia e del grano, e tutte le crisi locali generate da ognuno di questi eventi.

L’impatto economico del ritorno del conflitto israelo-palestinese in cima all’agenda internazionale dipende essenzialmente da due fattori: quanto la guerra può coinvolgere altri Paesi, e con quali conseguenze sui mercati dell’energia. Gideon Rachman, editorialista del Financial Times, recentemente ha spiegato che nella peggiore delle ipotesi una catena di eventi disastrosi potrebbe far deflagrare il conflitto tra i Paesi del Golfo Persico, con un effetto drammatico sulle forniture e le quotazioni di gas e petrolio.

«Ma anche senza arrivare a una guerra regionale», aggiunge Martin Wolf, il principale commentatore economico del quotidiano britannico, «i regimi del Medio Oriente potrebbero sentirsi destabilizzati dalla rabbia popolare per il mancato aiuto ai palestinesi, fino a rispondere con un embargo petrolifero come quello del 1973», che come ricorda Wolf non fu una conseguenza diretta della guerra dello Yom Kippur contro Israele, ma una precisa scelta politica di rappresaglia contro il mondo occidentale dei produttori di petrolio arabi.  Anche la Banca Mondiale lancia un avvertimento: i prezzi del petrolio potrebbero salire a più di 150 dollari al barile se il conflitto in Medio Oriente si intensificasse. In un report della settimana scorsa l’istituto ha messo in guardia sul rischio di una ripetizione dello shock degli anni ’70, se i principali produttori decidessero di tagliare le forniture.

Tuttavia, oggi i presupposti geopolitici sono molto diversi. All’epoca la principale destinazione del greggio del Medio Oriente erano gli Stati Uniti e l’Europa occidentale, ora invece i maggiori importatori di gas e petrolio mediorientali sono Cina, India, Giappone, Corea del Sud e Paesi del sud-est asiatico. Una scelta come quella del ’73 non colpirebbe solo l’occidente, ma i grandi dell’Asia, e questo non è nell’interesse economico né politico di nessun Paese del Golfo, neanche dell’Iran. Inoltre, il greggio non è più la pietra angolare dell’economia internazionale,

Finora gli effetti sul prezzo del petrolio della guerra Hamas-Israele sono stati modesti. Al di là dello shock iniziale, la quotazione del Brent ha continuato a oscillare intorno agli 85-90 dollari al barile. Sono prezzi più alti rispetto alla media dei primi nove mesi di quest’anno, ma in linea con il trend iniziato a settembre con i tagli alla produzione decisi dall’Arabia Saudita e dalla Russia nella sede dell’Opec allargato, potenzialmente in calo visto che Mosca sta ricominciando ad aumentare le esportazioni (violando l’accordo con i sauditi) per finanziare lo sforzo bellico in vista dell’inverno.

Non si può dire lo stesso del gas. Dall’inizio della crisi le quotazioni alla Borsa di Amsterdam (Ttf) sono schizzate verso l’alto, passando dai 39 euro al Megawattora di settembre ai 48-49 euro di ottobre. Prezzi superiori rispetto al secondo e terzo trimestre 2023 che rispecchiano la volatilità del mercato europeo del gas, estremamente suscettibile a qualsiasi informazione che paventi un calo dell’offerta, nonostante gli stoccaggi dell’Unione europea siano pieni al 99,5 per cento. A ottobre si è aggiunta anche la tensione del sabotaggio del gasdotto Estonia-Finlandia, che ha sollevato preoccupazioni sulla sicurezza delle infrastrutture critiche dei paesi della Nato.

Al momento lo scenario più condiviso dagli analisti è che il conflitto Hamas-Israele resti contenuto a Gaza, anche se nessuno si sente di escludere del tutto la probabilità di un allargamento alle potenze regionali.

Ma al di là di questo, nel prossimo futuro il Medio Oriente tornerà ad essere molto importante per gli approvvigionamenti europei, e le tensioni regionali – destinate a persistere – non potranno più essere sottovalutate. L’addio a petrolio e al gas russo ha imposto all’Europa una diversificazione delle forniture, che ora si affidano agli Stati Uniti e alla Norvegia, al Magreb e al Mediterraneo orientale, all’Asia centrale, all’Africa, e ai Paesi del Golfo.

In base ai dati del secondo trimestre 2023, i principali fornitori di Gnl (gas naturale liquefatto) dell’Ue sono gli Stati Uniti (46,4% del totale), seguiti da Russia (12,4), Qatar (10,9), Algeria (9,9) e Nigeria (5,1). Il 23 ottobre Eni e Qatar Energy hanno firmato il contratto per 27 anni di forniture di Gnl a partire dal 2026, accordi simili a quelli delle compagnie di Francia, Paesi Bassi e Germania. Anche Israele diventerà un importante fornitore di Gnl nell’Ue, il 29 ottobre lo stato ebraico ha assegnato 12 licenze per l’esplorazione dei suoi giacimenti off-shore. L’Eni è tra principali società coinvolte, aumentando le sue attività nel Mediterraneo orientale insieme a quelle nei giacimenti di Egitto e Cipro.

Quanto alle importazioni da gasdotto, i principali fornitori dell’Ue sono Norvegia (44,3%), Regno Unito (17,8), Algeria (16,5), Russia (13,8) e Azerbaijan (6,1). A giugno 2022 l’Ue ha firmato un accordo per raddoppiare entro il 2027 le importazioni di gas dall’Azerbaigian, a settembre 2023 le forze armate azere hanno conquistato il Nagorno-Karabakh, costringendo alla fuga l’80 per cento della popolazione armena locale.

Sul fronte del petrolio, sempre secondo i dati del secondo trimestre, i principali fornitori dell’Ue sono Norvegia (13,7 per cento) e Stati Uniti (13,6), seguiti da Kazakistan (10,2), Arabia Saudita (9,1), Libia (8,1) e Nigeria (6,9). Nel caso del petrolio però non ci sono fornitori dominanti, il 38 per cento del totale è arrivato da tante nazioni diverse, e ogni paese si è mosso per conto suo. I principali fornitori dell’Italia – che importava molto greggio russo – per adesso sono l’Azerbaijan, la Libia, il Kazakistan, gli Stati Uniti e l’Iraq.

Un mosaico composto da numerose potenze regionali, con molte autocrazie e alcune dittature militari. Paesi che presi singolarmente rappresentano un fattore di rischio limitato, in teoria sostituibili, ma che hanno il potenziale di scatenare una crisi regionale che può mettere a rischio anche le altre forniture. Nel mondo delle medie potenze multi-allineate uno scontro locale può diventare rapidamente globale, poiché le superpotenze non sono più in grado di contenere le politiche di potenza degli attori regionali.