Inchieste

Imprese, il caro denaro blocca gli investimenti

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di Giorgio Costa

Un costo del denaro per le imprese che sale, per chi ha prestiti a tasso variabile, di circa 15 miliardi di euro se i tassi arriveranno, entro il 2023, al 4%. È questa – secondo il calcolo della Cgia di Mestre – la salatissima bolletta che le imprese italiane sarebbero chiamate a pagare se la Bce mantenesse il ritmo di aumenti intrapreso: il sacrificio sarebbe leggermente minore se l’asticella della Bce si fermasse al 3,5%. E il calcolo è effettuato su una consistenza di prestiti che al 30 settembre 2022 era pari a 749,2 miliardi e che nel frattempo sarà sicuramente aumentata. L’onere, naturalmente, sarà maggiore nelle regioni dove sono maggiormente concentrate le attività produttive che si avvalgono dell’aiuto degli istituti di credito; vale a dire la Lombardia (+4,33 miliardi di euro), il Lazio e l’Emilia-Romagna (entrambe +1,57 miliardi), il Veneto (+1,52 miliardi) e il Piemonte (+ 1 miliardo). Quasi due terzi dei 15 miliardi di maggiore costo del denaro che si calcolava a dicembre 2022 e di cui le aziende dovranno farsi carico saranno riconducibili alle imprese del Nord.

«Questa politica di aumento dei tassi di interessi è una vera e propria follia che per ora ha effetti sulle imprese che sono indebitate a tasso variabile e che – spiega Lucio Poma, professore di Economia applicata all’università di Ferrara e capo economista di Nomisma – incide molto di più sui consumi e sui mutui delle famiglie mentre non ha alcun effetto sull’inflazione; inflazione che a dispetto dell’aumento dei tassi non scende. E, in questo senso, le Banche centrali si inseguono in una spirale per nulla virtuosa. Ha iniziato la Federal Reserve americana ad aumentare i tassi e la Bce si è messa sulla stessa strada; adesso la Fed pensava di rallentare la stretta ma vista la posizione europea continuerà ad aumentare i tassi che con ogni probabilità avrebbe lasciato fermi».

A livello territoriale, Milano sarebbe la provincia più “penalizzata” d’Italia dal rialzo dei tassi: le imprese ubicate nel capoluogo regionale lombardo si stanno facendo carico nel 2023 di un maggior aggravio dovuto all’aumento dei tassi di interesse pari a 2,3 miliardi di euro. Seguono le provincie di Roma con 1,4 miliardi, Torino con 567,5 milioni di euro, Brescia con 524,3 milioni e Bologna con 403,9 milioni di euro. Chiudono la graduatoria a livello nazionale Enna con maggiori costi pari a 9,7 milioni, Isernia con 9,5 e Vibo Valentia con 9,3 milioni di euro.

Il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi sottolinea i richiami alla prudenza sui rialzi della Bce, ripetutamente lanciati dal governatore della banca d’Italia, Ignazio Visco. «Condivido il monito del governatore Visco. L’ho sempre detto: un aumento dei tassi fino al 3% era condivisibile, andare oltre ci mette a rischio. Perché l’idea di contenere una inflazione, e l’inflazione europea è diversa da quella americana, solo tramite l’intervento sui tassi rischia di farci passare dal contrasto all’inflazione alla recessione. E quindi – ha detto a margine degli incontri all’Anci a Roma – secondo me si deve fare qualche riflessione maggiore».

Da parte sua il mondo degli artigiani, per bocca del responsabile della direzione delle politiche economiche di Confartigianato Bruno Panieri, parla di una situazione di «prudente attesa che non è ancora preoccupazione, perché stiamo attraversando una fase espansiva dell’economia» ma certamente si tratta di «scossoni finanziari che rischiano di frenare i progetti di investimento da parte delle imprese, anche se per ora non bloccano le pianificazioni già messe in campo. E la prudenza deriva dal fatto che, come si è visto con la crisi di Lehman Brothers, è difficile valutare inizialmente gli effetti di contagio sull’economia reale della crisi che stanno vivendo alcuni importanti istituti di credito».

Intanto, sempre secondo la Cgia di Mestre, continuano a diminuire i prestiti bancari alle piccole e micro imprese. Tra il 2021 e il 2022 gli impieghi vivi alle aziende con meno di 20 addetti sono scesi di 5,3 miliardi di euro (-4,3%). Lo stock complessivo dei prestiti erogati a questo segmento di aziende è passato da 124 a 118,7 miliardi di euro. Stiamo parlando dei prestiti concessi dagli istituti di credito alle imprese di piccolissima dimensione. Una platea di micro imprenditori costituita in massima parte da esercenti, piccoli commercianti, artigiani e lavoratori autonomi. Sempre tra il 2021 e il 2022, le regioni che hanno subito le contrazioni più importanti sono state il Veneto con il -6,24% (pari a -821,2 milioni di euro), l’Umbria con il -6,49% (-137,1 milioni), il Friuli Venezia-Giulia con il -6,54% (-177,8 milioni) e, in particolar modo, la Liguria con il -7,12% (-214,4 milioni di euro). A livello provinciale, invece, le realtà più colpite sono state due province della Romagna: Forlì-Cesena che ha visto diminuire il flusso dei prestiti del 9,38% (-135,5 milioni) e Ravenna con il -10,36% (-135,2 milioni).

Il mondo del credito nell’ultimo decennio ha subito molte restrizioni imposte dalla Banca centrale europea in materia di erogazione del credito. Questi vincoli hanno aumentato enormemente la soglia del merito creditizio, “allontanando” tantissimi piccoli imprenditori dai canali ufficiali di approvvigionamento della liquidità. E tra questi ultimi, purtroppo, non sono nemmeno pochi quelli “caduti” nella rete tesa dagli usurai.