Inchieste

Italia in riserva di gas: quel tesoro inutilizzato in fondo al mare

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di Tommaso Mattei

“Studia il passato, se vuoi divinizzare il futuro”. Diceva Confucio. Lezione mancata da parte dell’Italia. Noi, infatti, dal passato abbiamo imparato ben poco. E così di divino ci restano solo le preghiere per evitare che il domani sia peggio dell’oggi. Specie se parliamo di energia e in particolare di gas.

Gli errori del passato

Vent’anni di errori, di politiche sbagliate, di assenza di strategie energetiche ci hanno consegnato nelle mani degli stranieri. E ora ne paghiamo le conseguenze. I drammi che stiamo vivendo in queste ultime settimane sono figli di scelte scellerate. Bollette insostenibili, famiglie spaventate, aziende ad un passo dal baratro. Noi ce le siamo cercate. Sì, perché invece che prevenirla questa catastrofe l’abbiamo velatamente alimentata. Come? Consegnando le chiavi delle nostre caldaie a russi, americani e arabi.

La ragione deriva da due fattori precisi: l’attuale sistema di fissazione del prezzo del gas, che prescinde dall’equilibrio fra domanda e offerta sul mercato fisico, e l’ormai strisciante crisi della raffinazione nazionale che non garantisce più la piena autonomia dei rifornimenti di prodotti petroliferi. Problemi strutturali in essere da decenni, le cui conseguenze sono emerse in occasione di questa crisi, penalizzando famiglie e imprese.

Gas: l’inspiegabile dipendenza italiana dall’estero

Eppure, nonostante la necessità di interventi immediati ed efficaci in materia di strategia energetica, la classe dirigente ha da sempre preferito parlare di altro. Quasi tutto il gas che consumiamo in Italia, infatti, lo compriamo dall’estero.

Nel 2021 il nostro Paese ha utilizzato 76,1 miliardi di metri cubi di gas, di questi solo 3,34 miliardi di metri cubi sono stati estratti dal nostro sottosuolo. In pratica, solo il 6% del gas che consumiamo è prodotto qui in Italia, il resto, ovvero il 94%, lo importiamo dall’estero.

Una scelta incomprensibile visto che tutti noi sediamo sopra un mare di gas. Noi di russi, americani e arabi non ne avremmo nemmeno bisogno: secondo le stime, nel sottosuolo italiano sono presenti 350 miliardi di metri cubi di gas naturale – valori che includono sia riserve già confermate che possibili. Se prendiamo in considerazione solo le riserve certe, parliamo di circa 90 miliardi di metri cubi di gas estraibili in tempi relativamente brevi.

Scendiamo più nel dettaglio. In Italia ci sono 1.298 pozzi estrattivi di gas: di questi, 514 sono abitualmente utilizzati per l’estrazione, mentre 752 sono attivi ma inutilizzati, spenti. Nonostante là sotto ci sia tutto il gas di cui avremmo bisogno ogni anno. E così, quasi tutto il gas che utilizziamo arriva dalla Russia, dai Paesi del nord, da Libia, Algeria, dall’Azerbaijan. Uno spreco vero e proprio, di risorse e soprattutto di soldi. Basti pensare che l’estrazione del nostro gas ha un prezzo di soli 5 centesimi al metro cubo mentre importarlo dall’estero ce ne costa oltre 70.

I giacimenti italiani gas e il loro declino

A portarci a questo, un lento declino iniziato circa 30 anni fa. A cavallo tra gli anni ‘90 e il 2000 la produzione nazionale di gas arrivò attorno ai 20 miliardi annui, circa 6 volte la quantità attuale. Il picco storico è stato nel 1994 quando l’estrazione casalinga copriva il 40% del fabbisogno nazionale, appunto quei 20 miliardi di metri cubi. Con il tempo, però, si sono progressivamente ridotti: siamo passati dai 9 miliardi del 2008 ai quasi 7 del 2015 per finire con i 3,34 miliardi del 2021.

Eppure i giacimenti in Italia, in particolare di gas, non si sono mai esauriti, sono distribuiti lungo tutta la lunghezza della penisola, sia onshore (su terra), che off-shore (a mare).

L’Adriatico settentrionale è la provincia con le riserve accertate maggiori di gas metano ma negli anni la politica, l’ambientalismo, e i sostenitori del «no a prescindere» hanno fermato una macchina che oggi ci sarebbe estremamente utile.

Nella zona di Venezia le nostre piattaforme del gas sono ferme perché una legge, la n.133 del 2008, ne vieta l’estrazione. Stiamo parlando della subsidenza. Parola strana che forse pochi conoscono ma che in geologia vuol dire: movimento della piattaforma continentale o del fondo marino, che tende ad abbassarsi sotto il peso dei sedimenti che gli si accumulano sopra. In altre parole, estrarre gas dall’alto Adriatico avrebbe creato subsidenza, in altri termini uno sprofondamento di Venezia. Secondo alcuni, trivellare in quelle zone avrebbe fatto sparire la Serenissima sotto il mare.

L’argomento è stato oggetto di lunghi dibattiti e accese controversie. I più grandi scienziati si sono sempre mostrati prudenti sull’argomento. Marcellino Tufo ha fatto sapere più volte che in effetti la subsidenza è un fenomeno che può interessare gli impianti di estrazione, ma non in misura tale da provocare un abbassamento del suolo a chilometri di distanza. Pietro Teatini, professore di ingegneria idraulica e tra i massimi esperti in questo campo, ha recentemente dichiarato:

I giacimenti al largo dell’Adriatico hanno un’area molto piccola, per cui non provocano in alcun modo degli abbassamenti del livello del suolo lungo la fascia costiera, a meno che non siano sotto la costa. Tecnicamente la produzione di gas da quei giacimenti, che sono quasi tutti lontani dalla costa, non può provocare alcun abbassamento a Venezia.

Una prova di tutto questo ce la danno i nostri vicini croati, che da oltre 20 anni estraggono il gas proprio da quei giacimenti che noi teniamo fermi per paura di far sparire Venezia.

Altre due leggi che hanno impattato sulla produzione nazionale di gas sono state approvate a seguito del disastro della Deepwater Horizon, avvenuto nel 2010 nel golfo del Messico. Nello stesso anno un decreto del governo Berlusconi stabilì “il divieto di perforazione ed estrazione di gas all’interno di aree marine e costiere protette poste entro 12 miglia“. Due anni dopo il governo Monti ha esteso questo divieto “lungo l’intero perimetro costiero nazionale”. Risultato? Davanti alle Marche e all’Abruzzo più della metà delle piattaforme restano tutt’ora spente. E così, oggi, dal mar Adriatico estraiamo solo 800 milioni di metri cubi di gas, mentre nel 2000 erano 17 i miliardi di metri cubi che tiravamo su ogni anno: il 95% in meno.

E poi la Sicilia. A largo di Gela ci sono i giacimenti di Argo e Cassiopea, due pozzi del gas che da soli potrebbero produrre 10 miliardi di metri cubi ogni anno ma che sono ancora spenti nonostante siano stati scoperti quasi 20 anni fa. Ancora in stand by, perché mancano i tubi che colleghino i pozzi dal mare alla terra. Ad oggi si dice che potrebbero diventare operativi entro la prima metà del 2024 ma gli inciampi autorizzativi sono sempre dietro l’angolo.

L’Italia del gas, insomma, è ferma da nord a sud, dalla Sicilia fino all’alto mar Adriatico. E per il momento di riaccendere questa fiamma non se ne parla nemmeno. È vero, non sarebbe un processo breve ma sicuramente nel giro di qualche mese molti pozzi potrebbero essere riattivati. Se a questo si aggiungesse la manutenzione di quelli esausti, nel giro di 18-24 mesi la produzione nazionale di gas potrebbe salire a circa 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Dalle parti di Roma, però, nessuno sembra intenzionato.

(In)dipendenza energetica: la direzione dell’Italia

Al contrario, le azioni intraprese dal governo negli ultimi mesi sembrano un tentativo di passare da una dipendenza energetica all’altra. Abbiamo visto l’incontro con l’Algeria, ma non abbiamo registrato alcuna dichiarazione formale che impegni le autorità algerine a fornirci volumi aggiuntivi di gas in tempi definiti e a prezzi in linea con quelli attuali. In Angola non ci sono giacimenti di gas. Esiste solo il gas associato ai campi petroliferi (di pessima qualità) che viene inviato ad un impianto di liquefazione di proprietà di una joint venture di 5 partners e di cui l’Eni possiede solo il 13,6%.

Il Gnl, il gas liquefatto, viene commercializzato con tender internazionali normalmente vinti da compratori asiatici, che pagano il prezzo più alto. Sicuramente l’Italia sarà accolta amichevolmente, ma certamente non potrà ricevere garanzie di forniture di gas. In Mozambico, si ripeterà una storia simile. L’impianto di liquefazione che dovrebbe sfruttare il grande giacimento scoperto da Eni è gestito dalla Exxon (nuovo partner di Eni), ma i lavori non stanno procedendo come previsto, per ragioni economiche. Rimane il Congo, dove però i dati disponibili presso le varie fonti internazionali non mostrano l’esistenza di riserve certificate che possano garantire una produzione importante e duratura nel tempo e men che mai esportazioni di un certo rilievo verso l’Italia. Un’opzione che resta? Riaprire i giacimenti di gas produttivi nel territorio nazionale superando i vincoli regolamentari imposti nell’ultimo decennio.

E poi, l’ultima strada. Quella del gas liquido. Anche qui però mancano le infrastrutture. I famosi rigassificatori sono oggetto quotidiano di discussioni e dibattiti. Quelli che abbiamo li sfruttiamo poco e male. Ce ne servirebbe almeno un altro, ma fra sindaci intransigenti, presidenti di regione troppo ottimisti e soldi che forse non abbiamo, il tempo passa e la crisi aumenta. E pensare che il governo ha addirittura lanciato un piano straordinario che prevede 24 miliardi di euro per la costruzione di rigassificatori, che consentiranno l’importazione di Gnl, un gas molto più costoso e più inquinante (con questa tecnologia il 30% del gas prodotto viene scaricato in atmosfera). Per la produzione del gas nazionale non è previsto un solo euro di investimento o di incentivi: è bene chiarirlo. Passare dal gas naturale via pipeline al Gnl oltretutto aumenta la fragilità del nostro sistema: il gas liquefatto è soggetto a forti tensioni e speculazioni sui mercati internazionali.

Il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ha da poco dichiarato che il Paese è in sicurezza quanto a forniture, e che l’inverno prossimo sarà tranquillo. Dipende dai punti di vista. Aziende vicine alla chiusura, famiglie che non sanno come pagare le bollette, illustri esperti di energia che parlano di razionamento obbligatorio a partire dal mese di gennaio. Difficile credere al ministro, insomma, anche perché l’ad di Eni, Claudio Descalzi, ha lanciato messaggi ben diversi:

Non abbiamo una produzione nazionale, abbiamo 1/3 dei rigassificatori che ci servono e dobbiamo aumentare la capacità di stoccaggio. L’inverno – ha aggiunto poi – veramente critico sarà quello targato 2023/24.

Certo è che se dobbiamo far fronte a delle emergenze energetiche nazionali, dovremo avere la forza di affrontare una battaglia culturale e sociale per superare i contrasti del passato. Per affrontare una crisi che sta diventando drammatica, non possiamo rinunciare all’imponente patrimonio energetico nazionale ed essere obbligati a rivolgerci a Paesi che hanno ruoli secondari nel panorama energetico mondiale e che non potranno fornirci sicurezze per il futuro.

Il sistema istituzionale italiano richiede una profonda revisione per essere messo in grado di governare l’energia. Troppe crisi del sistema energetico non vengono affrontate e galleggiano in balia delle vicende internazionali facendoci pagare costi altissimi. Forse è giunto il momento di una seria riflessione e di azioni efficaci per garantire l’approvvigionamento energetico del Paese.