Inchieste

Panta rei, l’umiliazione di Eridano che fin da piccoli abbiamo imparato a temere

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di Roberto Pazzi (Scrittore, poeta e giornalista)

Fa davvero male veder agonizzare quel Po che accoglie con gli affluenti delle sue due rive l’anima del Bel Paese dalle Alpi agli Appennini, nella sua parte più settentrionale. Quel Po la cui lunghezza, fin da bambini, avevamo imparato essere di ben 652 chilometri. Nato dal Monviso, in Piemonte, traversata tutta la pianura, il fiume si getta «su la marina dove il Po discende / per aver pace co’ seguaci sui», come narra Francesca da Rimini nell’Inferno dantesco. Vivendo a Ferrara, a soli sette chilometri dal Po, sono cresciuto nell’abitudine a temerlo per le sue ricorrenti e devastanti inondazioni. Spettro di un’antica paura di morire affogati è nella mia città l’assoluta rarità di fontane, quasi a voler rimuovere la costante minaccia dell’acqua dalle fantasie dei ferraresi.

Ho ancora negli occhi i giorni del novembre del 1951 in cui il Po a lungo rimase sospeso nell’immaginario padano per la possibilità di esondare sulla riva destra, a Ferrara. Ricordo ancora mio nonno Virgilio salire i 92 gradini di casa mia, nel centro della città, con un sacco di farina sulle spalle, prevedendo di trasferirsi da mio padre con gli altri suoi figli, visto che abitavamo più in alto di loro. E lassù, a casa mia, nel palazzo della Cassa di Risparmio, i miei nonni avrebbero fatto il pane per tutta la famiglia, raccoltasi come in un’arca di Noè, in attesa che le acque tornassero a scorrere nel loro consueto alveo. Il Po ruppe invece il 14 novembre nel Veneto, facendo vittime e danni tali da suscitare una generosa gara di solidarietà e di soccorsi, dei “fratelli d’Italia”.

Quell’alveo, a vederlo oggi da Torino, stretto come un ruscello fra i suoi “murazzi”, sembra la pallida ombra di sé stesso. Attraverso ben quattro regioni, il Piemonte, la Lombardia, il Veneto e l’Emilia il Po, con la sua odierna magrezza, ci ricorda che il pianeta azzurro si sta velocemente riscaldando mentre molte specie animali si stanno estinguendo. Né ci conforta rammentare che ci sia stata nella storia della Terra un’altra “grande moria” tale da uccidere quasi il 90% della vita per il surriscaldamento. Ora tocca a noi impedire, ricchi di tutta la nostra scienza, l’irreversibilità di questo immane disastro, rimediando il male che abbiamo ereditato e aggravato. Se non ci cogliesse il dubbio che proprio la tracotanza della nostra scienza, con le applicazioni delle sue metastasi tecniche, abbia ridotto a questo stato il nostro clima.

Sta di fatto che oggi ci sono punti in cui nel suo medio corso, si può attraversare il Po a piedi, emergendo sabbie e isole dalle acque che eravamo abituati a vedere di un perenne cupo verde. In certi punti la navigazione diventata impossibile, ha umiliato il Po a fiumiciattolo, fra barche arenate, ponti superflui, pontili abbandonati. Immagini che evocano la desolata desertificazione di certe regioni siberiane del prosciugato lago Aral. E pensare che da ragazzo, in un mese di luglio degli anni Settanta, per una siccità di proporzioni ben più modeste, profittai dell’esiguità delle acque per fare un bel bagno nel Po e stendermi poi sulla sabbia, ad asciugare al sole. La cosa proibita, anche per il pericolo delle nascoste correnti, tingeva di sfida il piacere inusuale di quel bagno, in acque ancora pulite. Quel giorno in mezzo al Po evocavo i versi di Ungaretti: «Stamani mi sono disteso/ in un’urna d’acqua / e come una reliquia/ ho riposato … e qui meglio/ mi sono riconosciuto/ una docile fibra/ dell’universo».

Difficile non evocare un’altra fotografia del Po, questa volta del 1929, quando invece, per un inverno di straordinario rigore, le acque gelate consentivano a ferraresi e ai vicini veneti, di attraversarlo a piedi, sulle lastre spesse di ghiaccio. Da tempi degli Etruschi, quando si chiamava Eridano, il Po ritma le nostre abitudini, le nostre stagioni, le nostre attese, come un custode della nostra vita, piantati qui come siamo al centro della pianura più vasta d’ Italia. A Ferrara più sensibile è quel vuoto per l’assoluta mancanza di riferimenti visivi che spezzino l’orizzonte, come una montagna, una collina, un lago, un mare. In quel vuoto quasi sarmatico, il genio dell’Ariosto collocò la compensazione del pieno con le leggende medievali rivissute con animo rinascimentale nel suo Orlando furioso. E al Belvedere, in mezzo al Po, l’isola oggi inesistente, la corte Estense riunita intorno al duca Alfonso II assisté nel 1573 alla prima rappresentazione dell’Aminta del Tasso, l’altro grande poeta di Ferrara. In tempi più vicini a noi, un’altra penna ha immortalato il mito del Po, legandolo alla storia e alle sue mutevoli stagioni, quasi il fiume sia una stella fissa, nel firmamento del divenire che travolge ogni forma della civiltà. Ed è la penna magistrale di Riccardo Bacchelli, con Il mulino del Po. Il romanzo dall’età napoleonica narra una saga famigliare che arriva fino ai nostri giorni.

Ma è tutto il corso del Po ricco di echi letterari, di rimandi a varie interpretazioni poetiche, fra epica e narrativa. Come dimenticare, nella bassa reggiana, Brescello, il paese affacciato sul Po dove l’Enza vi confluisce, immortalato dalla satira di Giovannino Guareschi, con i suoi libri su Don Camillo e Peppone? Quelle pagine dell’eterno scontro fra Ghibellini e Guelfi, aggiornate al contrasto fra comunisti e democristiani, sono nel dna della nostra moderna identità storica. Ma è forse nella metafora eraclitea del panta rei, del “tutto scorre”, che il Po riconosce la verità più alta della sua forza simbolica, quella del Tempo, lungo le cui rive nasciamo e scompariamo, in un eterno divenire…