Inchieste

Pensioni: la spesa vola e chi ha lavorato paga due volte

Scritto il

di Giorgio Costa

Nel 2012 un’Italia che aveva appena introdotto la riforma Fornero per dare un segnale deciso di risanamento ai mercati, all’attacco del nostro debito pubblico, dedicava alle pensioni 249,5 miliardi di euro, il 15,9% del Pil. In base alla Nadef approvata nei giorni scorsi dal governo, quest’anno la spesa sarà di 297,4 miliardi, il 15,7% del Pil. E alla fine del prossimo triennio arriverà a 349,8 miliardi, 100,3 miliardi più di 13 anni fa.

Il peso della previdenza arriverà al 17,6% del Pil, ammesso che guerra e crisi energetica non travolgano la (leggera) crescita prevista dall’ultimo documento ufficiale di finanza pubblica. A tutto ciò si aggiunga – come prevede Moody’s – il fatto che, da qui al 2040, l’indebitamento da pensioni è destinato a salire a circa 240 miliardi.

Numeri che l’Italia, con un debito già ora molto elevato, rischia di non poter sostenere; un allarme che lascia ben poco spazio all’ottimismo.

«Ma quel che è peggio – spiega Alberto Brambilla, presidente di Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, con un lungo passato nelle istituzioni e nel mondo della previdenza – è la scelta del governo di rivalutare del 120% dell’inflazione pensioni dietro alle quali nella stragrande maggioranza dei casi non sta alcuna contribuzione. Stiamo parlando di 4,5 milioni di pensioni a vantaggio di soggetti che, per la gran parte e per i più svariati motivi, non hanno versato contributi e che ora si vedono arrivare non solo una pensione, ma una pensione ampiamente rivalutata. E il tutto a danno, visto le minori rivalutazioni, di chi i contributi li ha versati eccome. Non dobbiamo infatti dimenticare che in Italia tra versamenti dei datori e dei dipendenti, ogni anno il sistema pensionistico, quale differenza tra le entrate contributive e le uscite per pensioni al netto dei 56 miliardi di Irpef che grava su poco meno della metà dei pensionati, e togliendo i circa 55 miliardi di quota assistenziale derivante da promesse elettorali, è in attivo per 30 miliardi di contributi. Anche se, per quanto riguarda le imposte e segnatamente l’Irpef, il 70% dei soggetti con redditi fino a 26mila euro sono a carico della fiscalità».

Brambilla è molto scettico anche sulla strada intrapresa dall’esecutivo. «È chiaro – spiega – che il governo non aveva tempo di fare grandi riforme e, pur essendoci la necessità di rivedere la legge Fornero su alcuni punti, avrebbe potuto prorogare Opzione donna, Ape sociale e Quota 102. Volendo invece mettere la bandierina ha introdotto quota 41 e il divieto di cumulo, una misura sbagliata. Per non dire di cosa sarebbe avvenuto se il governo avesse seguito la proposta di Silvio Berlusconi di portare le minime a quota 1.000 euro: avremmo speso 31 miliardi in più tutti gli anni a solo carico della fiscalità pubblica: una pazzia».

Intanto, al 31 dicembre 2021, i pensionati in Italia erano circa 16 milioni, di cui 7,7 milioni di uomini e 8,3 milioni di donne, per oltre 22 milioni di assegni pensionistici. L’importo lordo delle pensioni complessivamente erogate nel 2021 è di 313 miliardi di euro. Sebbene le donne rappresentino il 52% sul totale dei pensionati, percepiscono solo il 44% dei redditi pensionistici. L’importo medio mensile dei redditi percepiti dagli uomini è 1.884 euro lordi, del 37% superiore a quello delle donne, pari a 1.374 euro e nel 2021, il 40% dei pensionati ha percepito un reddito pensionistico lordo inferiore ai 12mila euro.

La struttura demografica della popolazione italiana ci mostra come l’onda dei baby boomers stia arrivando alla pensione e come, per contro, la base contributiva si stia restringendo. Quand’anche le politiche di contrasto alla denatalità risultassero efficaci, i benefici di nuovi contribuenti che entrano nel mercato del lavoro si verificheranno tra 20-25 anni. Del resto, per l’equilibrio del sistema previdenziale, occorre garantire la sostenibilità della spesa ma anche l’allargamento della base contributiva sia in termini di recupero del sommerso che di incremento della massa retributiva per i lavoratori regolari.

L’area geografica che registra la percentuale più alta di prestazioni pensionistiche al 1° gennaio 2022 è l’Italia settentrionale con il 47,85%, al Centro viene erogato il 19,31% delle pensioni mentre in Italia meridionale e nelle isole il 30,77%; il restante 2,06% (366.226 pensioni) viene erogato a soggetti residenti all’estero. L’importo medio mensile della pensione di vecchiaia è di 1.285,44 euro e presenta il valore più elevato nel settentrione con 1.379,92 euro.

Se si guarda al rapporto tra gli Italiani maggiorenni che hanno un’occupazione e quelli che percepiscono una pensione, si scopre come purtroppo l’Italia si collochi da questo punto di vista agli ultimi posti in Europa; peggio solo (dati Eurostat) Croazia, Grecia, Finlandia, Slovenia, Romania e Francia. I dati, aggiornati al 2018, parlano infatti per l’Italia di un 46,4% di occupati contro un 22,2% di pensionati. Inutile dire che sono numeri tutt’altro che confortanti, specie se confrontati con il 62,1% di occupati in Estonia e Regno Unito e il 14,3% di pensionati irlandesi, i tre Paesi che occupano le posizioni di vertice di questa particolare classifica. Il nostro Paese paga sicuramente anche il fatto di avere il terzo valore più basso di occupati a livello continentale, a prescindere dalla percentuale di pensionati. Insomma, il corretto equilibrio tra il numero di lavoratori e di pensionati è forse la prima vera questione e va ovviamente da sé che, se i secondi si avvicinano troppo o addirittura superano in quantità i primi, il sistema pensionistico non può che andare in crisi.

Secondo Alberto Brambilla, in ogni caso, a oggi il nostro sistema pensionistico è sostenibile e lo sarà anche tra 13 anni, nel 2035, quando le ultime frange dei baby boomer nati dal dopoguerra al 1980 si saranno pensionati. In termini previdenziali il pensionamento di queste numerose coorti è in effetti fondamentale, perché dal 1959 al 1977 le nascite sono state oltre le 800mila unità annue con punte tra il 1964 e il 1975 di circa un milione di nati ogni anno.

Perché si mantenga la sostenibilità pensionistica, è necessario tenere sotto controllo l’età di pensionamento.

«Premesso – spiega Brambilla – che anche un aumento delle nascite, mantra che caratterizza gran parte degli interventi sul tema, non risolverebbe il problema dell’aumento della forza lavoro (nel 2035/2040 un nato nel 2022 sarebbe ancora sui banchi di scuola), gran parte della responsabilità sul livello della sostenibilità è sulle spalle della politica. Politica che deve invertire la rotta di questi ultimi 10 anni nei quali l’età effettiva media di pensionamento si è ridotta a meno di 62 anni contro una media Ocse vicina ai 65, con grave rischio per la sostenibilità previdenziale e finanziaria (si ricordi l’ingente debito pubblico) delle future generazioni.

Infatti, dal 2012, tra nove salvaguardie (le prime due fatte da Fornero), precoci, APE sociale, Quota 100  e Quota 102 che scade proprio a fine anno, e l’ultima invenzione dei “lavori gravosi”, di cui non v’è alcuna traccia nella letteratura medico-scientifica, e senza dimenticare la pensione e il reddito di cittadinanza, oltre 850mila lavoratori (85mila l’anno) sono andati in pensione con i requisiti di età molto bassi, riducendo gran parte dei risparmi previsti dalla stessa riforma Monti-Fornero».

Occorre quindi correlare l’età di pensionamento alla speranza di vita, che in Italia è tra le più elevate a livello mondiale. Ma per alzare le età occorre riformare pesantemente l’organizzazione del lavoro; e qui veniamo all’altra questione campale perché il rischio è che nel 2050 vi siano più pensionati che lavoratori. Potrebbe essere questo, infatti, secondo l’ultimo studio dell’Ocse (da taluni contestato perché non terrebbe adeguatamente conto dell’enorme platea che pur potendo non lavora in quanto “assistita”) il destino dell’Italia.

Sulla base degli attuali schemi pensionistici, scrive l’organizzazione nel rapporto Working Better with Age, il numero di persone over-50 inattive o pensionate che dovranno essere sostenute dai lavoratori potrebbe aumentare di circa il 40%, arrivando nell’area Ocse a 58 su 100. In Italia, Grecia e Polonia, entro il 2050 il rischio è di un rapporto uno a uno o addirittura di più over-50 fuori dal mondo del lavoro che lavoratori.

Di fronte al rapido invecchiamento della popolazione, l’Ocse invita i governi a promuovere nuove opportunità di lavoro in età avanzata per proteggere gli standard di vita e la sostenibilità delle finanze pubbliche.

Secondo uno studio della Cattolica di Milano datato 2021, nel 2018 l’Italia aveva il secondo più alto livello di spesa pensionistica (dato che però include anche la spesa assistenziale) rispetto al Pil, preceduta solo dalla Grecia.

Essendo i dati relativi al 2018, i prepensionamenti ottenuti con Quota 100 e l’estensione di misure come l’Ape sociale e Opzione donna non sono inclusi in queste statistiche per cui la spesa per pensioni nel 2019 ha sicuramente registrato cifre più alte.

L’elevato livello di spesa per pensioni riflette due caratteristiche del sistema pensionistico italiano. Primo, il fatto che l’età effettiva di pensionamento è ancora relativamente bassa nonostante l’aumento dell’età di pensionamento di base. Secondo, il tasso di sostituzione (rapporto tra pensione e ultimo stipendio) è relativamente alto: secondo le più recenti stime Ocse, il tasso di sostituzione lordo è pari al 79,5%, mentre le medie per i paesi Ocse e Ue si fermano rispettivamente a 49 e 52%.