Inchieste

La sanità lumaca e gli esami a babbo morto

Scritto il

Inchiesta a cura di Lorenza Resuli

Dalla sanità pubblica… si salvi chi può! Ancora oggi chi ha bisogno di prenotare una prestazione medica con il SSN si fa letteralmente il segno della croce, perché sa bene che dovrà affrontare un piccolo calvario, tra telefonate al Cup, agende bloccate fino a data da destinarsi e liste d’attesa così lunghe da far slittare la data dell’appuntamento di settimane o addirittura mesi.

Come si suol dire: uno fa in tempo a morire. O a subire gravi danni. Il caso più recente salito agli onori della cronaca è quello del 75enne di Alessandria che, operato a un piede nel 2018, ha poi subito un’amputazione di una gamba, misura estrema evitabile se i debiti controlli non fossero stati rinviati per mesi. Colpa del Covid, si dirà, che ha bloccato tutto.

La pandemia non ha aiutato, certo, ma le difficoltà di accesso a prestazioni mediche essenziali rappresenta da tempo immemore la maggiore criticità della sanità pubblica. Già nel 2019 dall’indagine realizzata da Rbm-Censis, su un campione di 10mila cittadini, i numeri riferiti all’anno precedente erano drammatici: 128 giorni per una visita endocrinologica, 97 per una mammografia, 75 per una colonscopia, 65 per una visita oncologica.

Piccolo particolare: se aspettare mesi un passaporto è fastidioso ma non espone a rischi, rinviare all’infinito un controllo medico o un esame diagnostico può costare caro. Già allora il Censis parlava dei “forzati della sanità a pagamento”, un esercito di quasi 20 milioni di italiani che, obtorto collo, avevano sposato la logica poco universalistica del «più spese, meno attese».

La salute val bene un sacrificio economico: pagando di tasca propria, i tempi magicamente si dimezzano. Non stupisce che, nel 2018, la spesa sanitaria privata fosse lievitata a 37,3 miliardi di euro, segnando un +7,2% rispetto al 2014.

Aspettare, rinunciare o pagare

A distanza di quattro anni nulla è cambiato, anzi, la situazione rischia di precipitare per la crescita costante delle richieste di visite ed esami, quelli che un po’ tutti abbiamo rimandato in epoca Covid. In Toscana, unica Regione che monitora le prescrizioni, dal 2019 il numero di ricette mediche è aumentato del 25% per le visite, del 28% per le visite di controllo, del 31% per la diagnostica per immagini e del 17% per quella strumentale.

Elaborazioni Cittadinanzaattiva

Le richieste di controlli medici aumentano, i tempi di attesa si allungano e la coperta è ormai troppo corta. Ovvio che gli italiani ricorrano in modo più massiccio all’out of pocket (pagare di tasca propria) o a coperture assicurative private e aziendali. Secondo dati Istat, dal 2019 a oggi il numero delle persone che dichiara di aver sostenuto interamente le spese è cresciuto sia per le visite specialistiche (dal 37% al 41,8%) sia per gli accertamenti diagnostici (dal 23% al 27,6%). In soldoni, oggi circa il 25% della spesa per la salute è ormai a carico dei cittadini. E chi non può pagare? Getta la spugna. Sempre l’Istat denuncia che lo scorso anno oltre 4 milioni di italiani hanno rinunciato a prestazioni sanitarie necessarie.

Per ragioni economiche, certo, ma soprattutto per l’impenetrabile barriera rappresentata ancora una volta dalle liste d’attesa interminabili. Lo confermano i risultati dell’indagine di Altroconsumo sulla sanità pubblica, che nel maggio 2022 ha coinvolto un campione di 803 cittadini: l’81% ha dichiarato di aver avuto difficoltà nell’ultimo anno a prenotare con il SSN una visita medica specialistica o un esame diagnostico a causa delle liste d’attesa troppo lunghe e quasi i 2/3 ha ammesso di aver superato l’ostacolo affidandosi al privato. Lo conferma anche l’ultimo, imponente Rapporto civico sulla salute di Cittadinanzattiva, presentato lo scorso maggio al ministero della Salute nell’ambito di una giornata di mobilitazione intitolata, non a caso, “Urgenza sanità”.

La salute non può più attendere

Il Rapporto civico sulla salute 2023 – che integra i dati provenienti dalle 14.272 segnalazioni spontanee dei cittadini giunte nel 2022 alle sedi e ai servizi PIT Salute di Cittadinanzattiva con dati provenienti da fonti istituzionali, accademiche o della ricerca – rappresenta una potente lente di ingrandimento sulle maggiori criticità del SSN.

Diamo ancora la parola ai numeri: quasi una segnalazione su tre dei cittadini (29,6%) riguarda l’accesso alle prestazioni sanitarie, in quasi il 50% dei casi per colpa di liste d’attesa eccessive, nell’altra metà per la difficoltà di contattare il Cup, le agende bloccate o il mancato rispetto dei codici di priorità. Sono quelli che, come impone il PNGLA (il Piano Nazionale di Governo delle Liste di Attesa 2019-2021), il medico deve indicare sulla ricetta proprio per garantire che la prestazione venga prenotata entro un tetto massimo di giorni in base all’urgenza: P (programmabile, da fare entro 120 giorni); U (urgente, entro 72 ore); B (breve, entro 10 giorni); D (differibile, 30 giorni per le prime visite e 60 giorni per accertamenti diagnostici). Tempi, invece, completamente disattesi.

A Cittadinanzattiva sono arrivate segnalazioni di prime visite specialistiche in classe B (entro 10 giorni) prenotate dopo 60 giorni, mentre senza codice di priorità si è arrivati ad aspettare 360 giorni per una visita endocrinologica e 300 giorni per una cardiologica.

Stessa sorte con le visite specialistiche di controllo: visita ginecologica con codice U (entro 72 ore) fissata dopo 60 giorni, visita ortopedica della stessa classe d’urgenza dopo tre mesi. E senza codice di priorità? 455 giorni per una visita endocrinologica, 360 per una neurologica. Infine gli esami: 730 giorni per una mammografia con classe P (programmabile), 150 per una mammografia con codice B breve (entro 10 giorni), un anno per una gastroscopia.

Il PNGLA, però, prevede che, se la data della prenotazione proposta dal Cup supera i tempi del codice di priorità o è eccessiva, il cittadino ha diritto a richiedere il “percorso di tutela” e utilizzare la libera professione all’interno dell’ospedale pagando solo il ticket. Peccato che quasi nessuno lo sa.

Non è tutta colpa del Covid

A emergenza conclusa, tutte le Regioni hanno ricevuto un diktat ben preciso: tornate almeno ai livelli del 2019. Ci sono riuscite? La risposta della Fondazione Gimbe, che ha analizzato i dati del ministero della Salute, è sconsolante: «Nel 2022 è stato recuperato solo il 65% delle liste d’attesa saltate per la pandemia Covid». In pratica, nessuna Regione ha raggiunto per tutte le prestazioni le quote di recupero previste dai Por, i Piani operativi regionali studiati ad hoc.

E non per mancanza di fondi, perché questa volta i soldi c’erano: quel tesoretto da 500 milioni di euro che già la legge di Bilancio 2021 aveva messo a disposizione per recuperare le prestazioni mediche rinviate e che la legge di Bilancio 2022 ha dovuto poi prorogare perché molte Regioni tardavano a spenderli.

I soldi c’erano ma il problema non è stato risolto: come mai? Per le insormontabili difficoltà (incapacità?) organizzative e di pianificazione che da anni rendono impossibile prolungare gli orari di visite ed esami.

Per la carenza cronica di personale sanitario, a partire dai medici, ben più incentivati a scegliere la libera professione nelle strutture ospedaliere (intramoenia) che restare nel faticoso e meno remunerativo servizio pubblico. Per la politica malsana imperante nelle strutture private accreditate, che continuano a dare la precedenza a chi paga, aumentando sempre di più il volume di attività in solvenza a scapito di quella in convenzione.

Le ricette per curare la sanità

Ragioni, queste, che hanno spinto Cittadinanzattiva a proclamare lo stato di emergenza sanitaria e a promuovere il manifesto “Urgenza Sanità”, che indica cinque chiavi di accesso alla casa comune del Servizio sanitario nazionale. Una di esse riguarda le liste d’attesa, eliminabili solo «attraverso un investimento sulle risorse umane e tecniche, una migliore programmazione e trasparenza dei vari canali, un impegno concreto delle Regioni per i Piani locali di governo delle liste di attesa».

I cittadini chiedono, il ministro della Salute, Orazio Schillaci, risponde. Dei 3 miliardi di euro assegnati dalla Manovra alla sanità, una grossa fetta sembra destinata proprio a estirpare la piaga delle liste d’attesa: 300 milioni per incentivare gli straordinari di medici e infermieri, 500-600 milioni per acquistare prestazioni mediche nelle strutture accreditate, cioè quelle che già collaborano con il SSN.

Tra gli interventi ventilati, un monitoraggio ancora più capillare dei tempi di attesa e dei percorsi assistenziali del paziente, attraverso diverse tipologie di rilevazione (sia ex ante sia ex post), e la creazione di un unico ReCup regionale per tutte le prestazioni passate dal SSN, anche quelle erogate dalle strutture private convenzionate. Il ministro è andato oltre, ipotizzando l’istituzione di una sorta di Autorità nazionale ad hoc con compiti di vigilanza sulle liste d’attesa, Regione per Regione, e di intervento immediato sulle criticità. Misure sufficienti? Non ci resta che attendere…

I dati regionali sui tempi d’attesa? Pubblici, ma (per ora) inutili

n teoria il problema delle liste d’attesa dovrebbe essere risolto da anni. Risale al 2019, infatti, il famoso PNGLA, il piano nazionale studiato dal Governo di allora proprio per assicurare tempi certi per le prestazioni sanitarie e il diritto alla salute a tutti i cittadini. In pratica il problema è più grave che mai.

Di certo non hanno aiutato a risolverlo i dati regionali sui tempi di attesa per 65 prestazioni ambulatoriali e 17 in regime di ricovero che il PNGLA obbliga a pubblicare su siti ad hoc. Questa rendicontazione periodica – assai onerosa per le Regioni – doveva essere uno strumento utile al cittadino e anche agli “addetti ai lavori” per individuare più facilmente eventuali criticità e correggerle in modo rapido e mirato.

Purtroppo, però, il PNGLA ha lasciato a ogni Regione la libertà di scegliere la modalità di raccolta di questi dati, con il risultato di renderli disomogenei e non comparabili fra loro. In una parola: inutili. Lo ha denunciato anche il Report 2022 realizzato da Hi-Healthcare Insights, l’Osservatorio indipendente sull’accesso alle cure di Fondazione The Bridge: il sistema di monitoraggio imposto dal PNGLA non è in grado di fornire un quadro realistico delle liste d’attesa.

Per colmare questa pesante lacuna, Fondazione The Bridge e Agenas (l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) hanno già avviato un progetto congiunto per studiare una nuova modalità di raccolta e analisi dei dati. Con questo scopo è stato creato un gruppo di lavoro incaricato di monitorare ex ante i tempi di attesa delle prestazioni specialistiche.

In particolare, il progetto prevede la raccolta dei dati analitici delle prenotazioni effettuate attraverso i Cup di un campione di Regioni/Aziende sanitarie; l’analisi dei dati raccolti e la successiva comunicazione al ministero della Salute; la costruzione di specifici indicatori di presa in carico dei pazienti; l’analisi legislativa a integrazione e supporto del percorso.

Liste d’attesa sotto la lente dei Nas: 26 medici e infermieri denunciati

esanti inefficienze, elusione dei codici di priorità, “nepotismo sanitario”, addirittura condotte penalmente rilevanti, tra cui truffa aggravata e peculato. È quanto emerso dall’intensa attività di controllo effettuata tra luglio e agosto dai Carabinieri dei Nas in concerto con il ministero della Salute su tutto il territorio nazionale per verificare la gestione delle liste d’attesa delle prestazioni ambulatoriali nel SSN.

Durante le ispezioni – che hanno coinvolto 1.364 tra ospedali, ambulatori e cliniche sia pubbliche e private in convenzione con il SSN – sono state passate al setaccio ben 3.884 liste e agende di prenotazione per prestazioni ambulatoriali relative a svariate visite mediche specialistiche ed esami diagnostici.

I risultati? Pesantissimi.

Gli accertamenti hanno consentito di individuare condotte penalmente rilevanti che hanno determinato il deferimento all’Autorità giudiziaria di 26 tra medici e infermieri, ritenuti responsabili di reati di falsità ideologica e materiale, truffa aggravata, peculato e interruzione di pubblico servizio.

Tra i casi più rilevanti: i Nas di Milano, Torino, Perugia e Catania hanno deferito 9 medici per aver favorito conoscenti e propri pazienti privati, stravolgendo le liste d’attesa, anticipando le loro prestazioni rispetto alla prenotazione ed eludendo le classi di priorità; i Nas di Reggio Calabria hanno deferito, per l’ipotesi di peculato, 3 medici per aver prestato fraudolentemente servizio in un poliambulatorio privato nonostante fossero contrattualizzati in regime esclusivo con le aziende sanitarie pubbliche.

L’attività ispettiva ha anche individuato 1.118 situazioni di affanno nella gestione delle liste di attesa e lo sforamento dei tempi imposti dalle linee guida del piano nazionale, pari al 29% di quelle esaminate.

Tra le cause più frequenti sono state accertate, su 761 agende, carenze funzionali ed organizzative dei presidi ospedalieri e degli ambulatori, diffusa carenza di personale medico e tecnici specializzati, mancanza di adeguati stanziamenti e attrezzature. In 195 situazioni, infine, i Nas hanno riscontrato la sospensione o la chiusura delle agende di prenotazione condotte con procedure non consentite o determinate dalla carenza o dalla vera e propria assenza di operatori non sostituiti.

Regione che vai, tempi d’attesa che trovi

Maglia nera a Puglia e Liguria, situazione più rosea in Emilia-Romagna e Lazio, allarme intramoenia in Campania. Questi, in estrema sintesi, i risultati dell’indagine condotta da Cittadinanzattiva a luglio di quest’anno, nell’ambito della più ampia campagna di mobilitazione “Urgenza sanità” lanciata a maggio.

L’inchiesta è andata a misurare i tempi di attesa per 6 diverse tipologie di visite specialistiche ed esami diagnostici (visita cardiologica, ginecologica, pneumologica, oncologica, ecografia addominale, mammografia) in 12 grandi Asl di 4 Regioni: Lazio (Asl RM1, Asl RM4, Asl Viterbo), Emilia Romagna (Ausl Bologna, Ausl Reggio Emilia, Ausl Parma), Liguria (As Ligure 1, As Ligure 3 e As Ligure 5) e Puglia (Asl Bari, Asl Lecce, Asl Taranto).

La situazione più critica è stata rilevata in Puglia, la Regione che rispetta meno i tempi previsti dal PNGLA. Nella Asl di Lecce, per esempio, nessuna visita pneumologica con priorità D è garantita entro i 30 giorni previsti.

Pollice verso anche per la Liguria, dove sono stati registrati picchi negativi importanti, tra cui i 270 giorni per un’ecografia addominale completa con priorità D (entro 60 gg) nella As Ligure 3 – Area metropolitana di Genova.

La situazione migliora nel centro Italia, dove non mancano alcune criticità: in Emilia-Romagna, picco negativo nella Ausl di Reggio Emilia sulla visita pneumologica, con tempistiche non rispettate nel 39% dei casi, in Lazio per un’ecografia addominale completa con priorità B (entro 10 gg), nell’Asl Roma 4 i tempi di attesa sono rispettati solo nel 18,2% dei casi.

Cittadinanzattiva ha avviato anche un’istanza di accesso civico presso le Regioni per conoscere i dati relativi alle prestazioni sanitarie erogate in regime pubblico e in intramoenia (libera professione all’interno dell’ospedale), nonché gli eventuali provvedimenti messi in atto dalle amministrazioni laddove sia stato superato il limite previsto dal PNGLA nel rapporto tra le due attività.

Particolarmente allarmante il quadro della Campania, dove la stessa Regione segnala che il numero di prestazioni erogate nel canale pubblico è inferiore, per tutti gli esami e le visite monitorate, a quelle erogate in intramoenia, un’anomalia verificata in tutte le aziende ospedaliere.

Cara sanità privata, quanto mi costi?

Che il prezzo di una visita o di un esame eseguiti privatamente superi il costo del ticket è scontato. Ma a quanto ammonta la differenza? Da pochi euro a diverse decine di euro. Già, perché da una struttura privata all’altra le tariffe cambiano, e non poco.

Lo ha verificato un’inchiesta di Altroconsumo condotta nel 2022, dalla quale sono emerse differenze di prezzo anche del 506% nella stessa città e fino al 1.116% tra una città e l’altra. In particolare, l’indagine ha rilevato i prezzi di cinque prestazioni (ecografia addome completo, gastroscopia, visita ginecologica, Risonanza magnetica nel tratto lombo-sacrale, elettrocardiogramma) in 195 strutture di 10 città italiane: Bari, Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Padova, Palermo, Roma, Torino.

La città in media meno cara? Bari. Quella più cara? Milano. Ma in tutte le città coinvolte, struttura che vai prezzo che trovi. A Torino, per esempio, per una gastroscopia si possono spendere da 132 euro fino a 800 euro (il ticket costa intorno ai 40 euro).

A Milano per una risonanza magnetica al tratto lombo-sacrale della colonna vertebrale si devono sborsare da 95 a 620 euro (quasi sette volte di più).

A Napoli una visita ginecologica può costare da 30 a 150 euro (+400%). Anche per un esame relativamente poco costoso come l’elettrocardiogramma le differenze possono essere notevoli: a Bari si va da 15 a 60 euro (da notare che il prezzo più basso è quasi sovrapponibile al costo del ticket).

E se invece si sceglie l’intramoenia, cioè l’attività privata dei medici all’interno degli ospedali pubblici? Mediamente il costo di visite mediche ed esami è molto simile a quello dei centri privati puri.

E sul fronte tempi di attesa? In media l’esame o la visita vengono prenotati entro una settimana, giorno più giorno meno. Tempi leggermente più lunghi rispetto alla stessa indagine effettuata nel 2018, indice di una maggiore richiesta verso il privato.

In viaggio per un esame medico

Secondo il rapporto Il termometro della salute, promosso dall’Osservatorio Salute, Legalità e Previdenza Eurispes-Enpam, gli italiani spendono quasi 40 miliardi di euro all’anno per la propria salute, tra prestazioni mediche e farmaci interamente o in parte non coperti dal SSN. Ma oltre a ciò, un altro fenomeno è tornato a intensificarsi di nuovo dopo il Covid: quello della mobilità o migrazione sanitaria, generato dalla necessità di rivolgersi a strutture pubbliche di altre Regioni per ottenere prestazioni del SSN non erogate nel territorio di residenza a causa di carenze strutturali locali. E ovviamente quello che la ricerca rileva è un forte squilibrio territoriale sui pazienti “in ingresso” e “in uscita” tra le diverse sanità regionali.

Le Regioni con un saldo attivo sono Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana, mentre quelle con un budget sanitario depauperato sono quasi tutte le restanti Regioni centro-meridionali. Da notare che i soldi versati dalle Regioni che “cedono” i pazienti a quelle in grado di elargire le prestazioni aggravano la situazione di budget sanitari già colpiti dai piani di rientro, mentre le Regioni che offrono molte prestazioni a cittadini non residenti possono contare su un over-budget che, a sua volta, permette nuovi investimenti in strutture e personale.

In termini di efficienza, dunque, la forbice tra le Regioni del Nord e quelle del Centro-Sud è destinata inevitabilmente ad allargarsi.