Inchieste

Burocrazia fiscale: insostenibile il costo sulle imprese

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di Giorgio Costa

Un carico fiscale e contributivo complessivo sulle imprese italiane pari al 59,1% dei loro utili. Spiegato semplice, secondo il rapporto Paying Taxes 2022 di World Bank e Pwc, significa che ogni 10 euro guadagnati, quasi 6 vanno allo Stato.

Vi è poi una speciale graduatoria che tiene conto dell’incidenza di imposte e contributi, del tempo che si impiega mediamente per ottemperare agli adempimenti e del numero di versamenti effettuati; bene, su 190 Paesi presi in esame, il nostro si piazza al 128° posto dietro ad Albania, Costa d‘Avorio e Bielorussia. In cima alla classifica c’è il Bahrain, con una tassazione ad appena il 13,8%, mentre il Brunei vince lo scettro dell’aliquota fiscale più bassa (8% medio).

Tutto questo in un contesto in cui la pressione fiscale media in Italia, data dal rapporto tra le entrate fiscali e il Pil, ha raggiunto il 43,8%, un livello mai toccato in precedenza. Lo rileva l’Ufficio studi Cgia di Mestre segnalando che il record storico non è riconducibile tanto a un aumento della tassazione su famiglie e imprese, quanto all’interazione di tre aspetti congiunturali distinti:

  • forte aumento dell’inflazione, che ha fatto salire le imposte indirette;
  • miglioramento economico e occupazionale nella prima parte dell’anno, che ha favorito la crescita delle imposte dirette;
  • varo nel biennio 2020-2021 di molte proroghe e sospensioni dei versamenti tributari, poi cancellate per il 2022.

Il peso del Fisco – secondo gli ultimi dati resi noti da Confartigianato – è in aumento di 0,4 punti rispetto al 2021 e il carico fiscale che grava su cittadini e imprese è superiore di 1,9 punti rispetto alla media dell’Eurozona. «In pratica, il prossimo anno – spiega il presidente di Confartigianato Marco Granelli – pagheremo 42,2 miliardi di maggiori tasse, 711 euro pro capite.

Con questa zavorra è difficile per noi competere sui mercati internazionali. Vanno quindi indirizzate risorse a riduzione della pressione fiscale che grava su tutte le forme di lavoro, anche mediante l’armonizzazione e la parificazione delle detrazioni spettanti in relazione alle tipologie di reddito.

Si incentivi, inoltre – prosegue Granelli – chi apre una nuova azienda e ancor di più chi decide di assumere, creando valore non solo per sé stesso ma anche per i propri dipendenti. Le imprese hanno bisogno di avvertire il fisco come lo strumento con cui lo Stato garantisce servizi di qualità ai cittadini e solidarietà nei confronti dei più deboli e non come un nemico da cui difendersi». Per non dire del cuneo fiscale (cioè della quota di salario che va al fisco e non al dipendente) e contributivo che nel 2021 è stato pari al 46,5%, di 11,9 punti superiore alla media dei Paesi avanzati. Sul fronte del lavoro, poi, l’artigianato, da luglio 2021 a giugno 2022, ha effettuato oltre 332mila assunzioni di apprendisti sotto i trent’anni.

Secondo Confindustria, serve «maggiore certezza e affidabilità della regolamentazione in materia fiscale e  la creazione di un contesto di riferimento più semplice per le imprese». In questo quadro le proposte formulate da Confindustria sono volte essenzialmente a evitare che dalla riforma dell’Irpef derivino incrementi del prelievo fiscale sui fattori produttivi, a individuare un disegno organico di riforma dell’Ires, a superare l’Irap; in generale, prevedere una riforma equa e orientata alla crescita e alla semplificazione. Ma anche abbattere il cuneo fiscale che arriva al 50% se si aggiungono oneri e contributi sociali. E secondo il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, quanto prevede la legge di Bilancio non basta: servirebbe un intervento choc da 16 miliardi da destinare ai redditi sotto i 35mila euro, due terzi a favore dei lavoratori, che significano 1.200 euro all’anno in più in modo strutturale.

Oltre ad avere un peso fiscale tra i più elevati d’Europa, l’Italia è il Paese dove pagare le tasse è anche più difficile, in particolar modo per le aziende. Secondo le statistiche della Banca Mondiale, gli imprenditori italiani – i dati si riferiscono a una media impresa, al secondo anno di vita e con 60 addetti – “perdono” 30 giorni l’anno (pari a 238 ore) per calcolare le imposte dovute, completare le dichiarazioni dei redditi e presentarle all’amministrazione finanziaria, effettuare il pagamento; in Francia per le stesse incombenze sono necessari 17 giorni (139 ore), in Spagna 18 (143 ore) e in Germania 27 (218 ore).

Lo stress test” di novembre

Siamo nel pieno dell’ingorgo fiscale di novembre che per l’erario è da sempre il mese più “ricco” dell’anno. Dalle scadenze del 16 e del 30 novembre, il fisco incasserà ben 69 miliardi. Le imprese, in particolare, saranno chiamate a versare Iva (19 miliardi), Ires (16,2 miliardi), ritenute dei dipendenti e dei collaboratori (12,5 miliardi), Irap (10,9 miliardi), acconto Irpef dei propri dipendenti (7,3 miliardi di euro), ritenute d’acconto sui compensi dei professionisti (1,2 miliardi).

Novembre costituisce un vero e proprio stress test che permetterà agli imprenditori di misurare la tenuta finanziaria delle proprie attività. E quando non supera questo “esame”, l’imprenditore spesso è chiamato a decidere se valga la pena o meno continuare l’attività.

«Per evitare che tanti piccoli imprenditori già in difficoltà chiudano definitivamente, è auspicabile – spiegano dalla Cgia di Mestre – che in tempi brevi il nuovo governo provveda a tagliare drasticamente le imposte, al fine di “ammorbidire” anche i versamenti relativi alle scadenze più critiche di ogni anno: ovvero, i mesi di giugno-luglio e di novembre-dicembre».