Innovazione

Urso a caccia del secondo grande produttore in Italia. Faro sui marchi cinesi

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«Abbiamo contatti, interlocuzioni a livello tecnico, ormai da almeno 8-9 mesi con alcune case, che potrebbero nei loro progetti di sviluppo che riguardano l’Europa, insediarsi anche in Italia»

Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso lavora sodo sul progetto per trovare un secondo grande produttore di auto in Italia, in modo per stimolare una sana concorrenza interna e sostenere la filiera della componentistica, altra grande vittima della crisi delle quattro ruote.

Un piano avviato dunque dal Governo ben prima delle roventi polemiche che a inizio febbraio hanno opposto Stellantis e Palazzo Chigi, uno scontro iniziato con gli incentivi all’auto elettrica (tardivi e insufficienti, secondo la casa italo-francese) e terminato tra minacce di chiudere impianti e accuse di intascare aiuti per modelli prodotti all’estero. Una polemica che ha anche riacceso la mai sopita diatriba su chi comanda davvero Stellantis: il primo azionista è la famiglia Agnelli-Elkann, ma ha un socio ingombrante come il governo francese.

 «Siamo l’unico paese europeo ad avere un solo grande produttore» è il mantra di Urso. «Una volta l’Italia aveva due case automobilistiche, poi fu venduta l’Alfa Romeo ma invece di venderla a un partner internazionale, l’allora sinistra al governo, che aveva anche la presidenza dell’Iri, preferì darla al produttore locale, chiudendo il mercato. Noi invece vogliamo aprirlo».

Insomma, serve un competitor accanto a Stellantis, «che è una importante multinazionale – ha aggiunto il ministro – che deve investire nel nostro Paese in modelli innovativi, in ricerca e nell’elettrico». Obiettivo dichiarato: «Un mercato interno che produca almeno 1,3 milioni veicoli, di qui a qualche anno». Per rilanciare l’industria dell’automotive e scongiurare il rischio di una desertificazione produttiva: nel 1989 si sfiorarono i 2 milioni di veicoli. Oltre a essere un vanto del Made in Italy nel mondo, la filiera vale da sola il 6% del Pil nostrano.

Il ceo di Stellantis, Carlos Tavares, da parte sua, ha già fatto sapere che è tutt’altro che favorevole a dividere incentivi pubblici con altri:

«Se il Governo vuole introdurre una concorrenza in Italia, siamo pronti alla lotta. Amiamo i nostri stabilimenti italiani, ma se dovesse diventare un duello molto duro, potrebbero esserci delle conseguenze»

Come dire: a mali estremi, spostiamo la produzione.

Chi sono i papabili a venire a produrre auto in Italia oggi, in un mercato in declino e con le immaginabili difficoltà?

Le case cinesi sono le indiziate più quotate, specie ora che si valuta a livello europeo di inasprire i dazi all’import e quindi conviene avere una base in loco. A cominciare dalla MG, erede dell’inglese Morris Garages e ora di proprietà di Saic Motors, che punta a una presenza produttiva in Europa; in Italia è ormai ben radicato, e lo scorso anno ha immatricolato 30mila vetture.

Anche BYD sta diventando sempre più nota da noi. I vertici al recente Salone di Ginevra hanno ammesso di essere stati contattati dal Governo italiano, anche se le trattative si sono raffreddate a dicembre dopo che hanno scelto l’Ungheria per il primo sito produttivo in Europa, che sfornerà auto e batterie. «Abbiamo alcuni contatti per discuterne», ha detto nei giorni scorsi Michael Shu, amministratore delegato di Byd Europe, in un’intervista a Bloomberg. La necessità di un secondo stabilimento europeo «dipende dalle nostre vendite: ora stiamo facendo ottimi progressi».

Byd, che nel 2023 ha superato Tesla come più grande produttore di veicoli elettrici al mondo, potrebbe non fermarsi all’impianto magiaro anche perché l’inchiesta della Commissione Ue sui veicoli elettrici cinesi potrebbe condurre a un aumento delle tariffe sulle loro importazioni. Byd – riporta il Financial Times – respinge le accuse di Bruxelles secondo cui il successo delle sue auto elettriche è dovuto ai sussidi che riceve da Pechino, affermando che invece è frutto del fatto che ha investito prima e molto di più dei suoi concorrenti.

Nel toto-nomi tra gli addetti ai lavori vengono quotati come possibili investitori anche altri marchi che hanno già a che fare più o meno direttamente con il mercato Italiano. Uno è Chery, che fornisce alla Dr Motor i componenti che vengono assemblati nell’impianto di Termoli, in Abruzzo. L’altro è Geely, proprietario del marchio svedese Volvo. Altro outsider è Toyota, che vanta con Fca e poi Stellantis una collaborazione avviata nel 2012 ad Atessa (Chieti): oggi vi produce parte dei nuovi veicoli commerciali di grandi dimensioni destinati al mercato europeo.

Resta il fatto che l’obiettivo dichiarato dal Governo di salvaguardare i fornitori di componenti italiani – un terzo è ad alto rischio con la transizione energetica verso l’elettrico voluta dall’Europa – sarebbe tutt’altro che alla portata: i big asiatici oggi si servono della componentistica made in China, oppure se la producono da soli (come nel caso di BYD).

Cambiando sponda, il colosso americano Tesla in Europa produce già nella gigafactory fuori Berlino, ma dovrebbe aprire nei prossimi anni una nuova fabbrica. Era girata voce di un accordo già chiuso con la Spagna, a Valencia, smentito però dalle autorità locali. Intanto il numero uno Elon Musk ha avuto incontri nelle scorse settimane con Giorgia Meloni e il presidente francese Emmanuel Macron. Altro possibile derby Italia-Francia, dopo quello per il controllo di Stellantis?

Qualche anno fa sembrava fatta per un altro grande produttore, con il faraonico progetto sino-americano da un miliardo di euro nella Motor Valley. Venne annunciato in pompa magna nel 2021 dalla cinese FAW e dalla statunitense Silk EV, con una joint venture che prevedeva un polo all’avanguardia dove progettare e produrre auto di alta gamma full electric e plug-in, ed era stata anche individuata l’area da 36 ettari a Gavassa (Reggio Emilia): ma il rogito non è mai stato effettuato. Poi gli addii dei top manager, i mancati pagamenti a fornitori e dipendenti, l’inchiesta per truffa e fondi “neri” nei paradisi fiscali da cui provenivano i finanziamenti, la revoca degli aiuti della Regione. Le carte dei progetti hanno ceduto il posto alle carte bollate: nel 2023 il tribunale di Reggio Emilia ha dato l’ok a un piano di risanamento di Silk-FAW. A inizio 2024 alcuni ex dipendenti hanno presentato una denuncia-querela nei confronti dei vertici per truffa e insolvenza.