La Settimana Internazionale

Il ricatto energetico, boomerang per Putin

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di Federico Bosco

La strategia di Vladimir Putin di usare le esportazioni di gas naturale e petrolio come strumento di pressione geopolitica non ha raggiunto l’obiettivo, nessun paese europeo ha ceduto al ricatto. Una strategia che non solo ha fallito, ma si sta ritorcendo contro il Cremlino. Putin aveva calcolato che tagliare il gas naturale all’Europa – in particolare alla Germania e all’Italia – avrebbe gettato i paesi nel caos, le temperature miti e la rapidità dei governi nel diversificare le forniture hanno fatto naufragare il piano.

I prezzi dell’energia restano alti rispetto agli standard storici, e le bollette sono ancora troppo costose, ma il mercato sta tornando sotto controllo e nessun paese teme di restare senza forniture. Nel frattempo, l’industria petrolifera russa sta subendo l’embargo dell’Unione europea e il price cap del G7, una combinazione di sanzioni (le prime che colpiscono direttamente il settore energetico russo) che ha abbassato ulteriormente il prezzo del greggio degli Urali fino a dimezzarne il valore: il petrolio russo adesso viene venduto a meno di 40-45 dollari al barile rispetto agli 80-90 del Brent, una cifra molto più bassa dei 60 dollari del price cap.

Nel 2021 gli idrocarburi coprivano il 45% delle entrate del bilancio della Russia. Nel 2022 i volumi esportati si sono ridotti, ma i prezzi fuori controllo di gas e petrolio hanno permesso a Mosca di continuare a guadagnare. Nel 2023 i prezzi non aumenteranno allo stesso modo, e la Russia sarà costretta a vendere una quantità minore di gas e petrolio a prezzi molto inferiori alle quotazioni globali. Pertanto, per Mosca sarà molto più difficile finanziare la guerra fornendo anche dei sussidi (casse integrazioni, disoccupazione, sconti fiscali, ecc…) alla popolazione.

Questo spiega perché il Cremlino stia alzando la posta delle minacce e il livello della propaganda interna. All’inizio della “operazione militare speciale”, ormai quasi un anno fa, il messaggio per i russi era di avere fiducia e non preoccuparsi delle conseguenze di un conflitto limitato che non avrebbe riguardato direttamente le loro vite. Nel corso dei mesi però l’effetto delle sanzioni e la chiamata alle armi della “mobilitazione parziale” ha aumentato la quantità di famiglie colpite direttamente dalle conseguenze della guerra.

La settimana scorsa a Mosca sono stati posizionati vistosi sistemi di difesa anti aerea su diversi edifici governativi, incluso il Ministero della Difesa, mentre il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo Dimitri Medvedev ricominciava a parlare del rischio nucleare in caso di sconfitta, in quella che viene presentata sempre più esplicitamente come un’altra grande guerra patriottica per la sopravvivenza della Russia come quelle combattute contro Napoleone e Hitler.

Il messaggio per la popolazione è di resistere, prepararsi al sacrificio per un periodo lungo e indefinito, i russi devono percepire la guerra come una questione di necessità. La normalità non è più ammessa, la paura dell’assedio è necessaria. Le suggestioni “occidentaliste” del passato vanno dimenticate per abbracciare un’economia della resistenza che orienterà la maggior parte dei suoi sforzi nell’industria militare e nell’impegno bellico. In estrema sintesi, un ritorno all’Unione Sovietica.

Per gli europei tutto questo significa che la rottura delle relazioni con la Russia diventerà ancora più profonda e pressoché definitiva, almeno fino a quando il regime sopravvivrà nella sua forma attuale, con o senza Putin. Una rottura lontana dall’essere compiuta, più di quel che sembra. Nonostante la retorica delle sanzioni, infatti, sono tantissime le imprese con affari e posizioni aperte in Russia. Secondo uno studio del prof. Simon Evenett, dell’Università di San Gallo, e del prof. Niccolò Pisani dell’International Institute for Management Development, delle 1404 aziende dell’Ue e del G7 che prima della guerra avevano filiali in Russia solo 120 hanno lasciato il paese, meno del 9%. «I dati relativi alla fine del mese di novembre mettono in discussione la volontà delle aziende occidentali di separarsi da un’economia che i loro governi ora considerano rivale strategico», affermano gli autori dello studio.

Se guardiamo la ripartizione geografica delle aziende che hanno lasciato la Russia, il 18% sono statunitensi e il 15% giapponesi; le aziende dei paesi Ue sono solo l’8,3%. Alcune delle più grandi multinazionali del mondo come Ford, Renault, McDonald’s, Ikea, Shell sono tra le dozzine di aziende occidentali completamente ritiratesi dalla Russia, ma sono più l’eccezione che la regola. Secondo la lista della Yale School of Management usata dallo studio, tra le 1284 aziende del G7 e dell’Ue che tengono aperte le filiali russe il 19,5% è tedesco; il 12,4 statunitense; il 6,4% è italiano; il 5,6% è francese. Aziende come la britannica Unilever, la statunitense Subway, le tedesche Bayern, Bosch,  Allianz, Commerzbank, le francesi Auchan, Sanofi, Lacoste, Engie. Le italiane sono 39 e coprono diversi settori come De Cecco, Barilla, Benetton, Calzedonia, Ariston, Intesa, UniCredit e altre.

La maggior parte delle imprese sta riducendo o tenendo in sospeso le attività, in attesa di prendere una decisione definitiva. In generale sono tutte multinazionali solide, in grado di reggere la perdita di un mercato importante, ma non esistenziale, come quello russo.

Tuttavia, lo studio dimostra che il racconto di un vasto esodo di aziende occidentali dalla Russia non trova molto riscontro nei dati reali, e dimostra l’indipendenza delle aziende rispetto alla politica. Nei prossimi anni però governi e imprese dovranno trovare il modo di mettere d’accordo gli obiettivi strategici e la libertà di muoversi nel commercio internazionale, dopo l’invasione russa dell’Ucraina il rischio geopolitico non è più una variabile secondaria, né per le multinazionali, né per le piccole e medie imprese.