La Settimana Internazionale

Il Sudan in fiamme e quella roulette russa tra i due generali

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di Federico Bosco

Lo scontro iniziato a metà aprile tra i due generali ex alleati che controllano il Sudan ha fatto precipitare la nazione africana in una guerra civile con conseguenze che vanno ben oltre i suoi confini. Da una parte c’è il generale delle forze armate Abdel Fattah al-Burhan, il leader del Paese, e dall’altra il generale Mohamed Hamdan Dagalo, comandante delle Forze di supporto rapido (Rsf), un gruppo paramilitare nato dalle milizie Janjaweed, responsabili di alcuni dei massacri più efferati compiuti nel conflitto del Darfur.

La rottura tra i due è avvenuta formalmente sulla decisione dei tempi e dei modi per l’assorbimento dei paramilitari nell’esercito regolare, parte del processo di transizione verso un governo democratico. Ma le ragioni reali sono ben più profonde e hanno a che fare con il controllo effettivo del Paese e delle sue risorse, la cui importanza – che non è sfuggita alle potenze straniere – è legata alla posizione strategica del Sudan e ai ricchi giacimenti di petrolio, gas e soprattutto oro.

Il vincitore sarà probabilmente il prossimo leader del Sudan, mentre il perdente dovrà affrontare l’esilio, l’arresto, o la morte. Tuttavia, è anche possibile che una guerra civile di lunga durata porti a una divisione del Paese in feudi rivali. I combattimenti hanno già provocato centinaia di morti e costretto milioni di persone a barricarsi in casa per restare al riparo dai combattimenti e dai saccheggi. E i cittadini stranieri vengono rimpatriati dai rispettivi Stati con difficili operazioni di evacuazione. Chiuse anche le ambasciate.

Più si prolungano gli scontri, più è probabile un intervento delle potenze straniere. Negli ultimi anni i Paesi del Golfo hanno guardato al Corno d’Africa per proiettare potenza in tutta la regione. Gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita hanno stretti legami con Dagalo, che ha fornito loro migliaia di combattenti delle Rsf per la guerra contro le milizie filo-iraniane nello Yemen. La Cina sostiene il Sudan da almeno trent’anni, sviluppandone risorse petrolifere e fornendo milioni di dollari in prestiti, aiuti e investimenti diretti. In cambio Khartoum consentiva a Pechino di mantenere una partecipazione significativa nel suo settore petrolifero e assicurava il pieno sostegno politico all’agenda cinese sulla scena internazionale. Per la Cina la crisi del Sudan è un problema, ma non una novità: dal 1956 a oggi il Paese ha assistito ad almeno 17 colpi di stato e continui trasferimenti di potere tra militari.

La Russia ha mire molto più bellicose, con un piano per costruire una base militare a Port Sudan, sul Mar Rosso, una rotta commerciale cruciale per le spedizioni di energia verso l’Europa. Dagalo è legato al Cremlino e in particolare ai mercenari del Gruppo Wagner (presenti in Sudan dal 2017), che grazie ai paramilitari delle Rsf controllano di fatto i giacimenti auriferi del Darfur. Secondo alcuni esperti, dietro la rottura tra i due generali ci sarebbero delle incomprensioni insanabili sulla linea da adottare nei confronti di Mosca.

Alcune immagini satellitari pubblicate dalla Cnn rivelano che milizie di Dagalo hanno ricevuto attraverso la Wagner una fornitura di munizioni patrocinata da Mosca. Le Rsf avevano bisogno di rafforzarsi per affrontare l’assalto a dieci città in contemporanea e un lungo scontro frontale con l’esercito regolare.

Le forze armate del generale al-Burhan dal canto loro controllano gran parte dell’economia sudanese, e possono contare sugli uomini d’affari di Khartoum e delle rive del Nilo, arricchitesi durante il governo di Omar al-Bashir e che disprezzano (ma temono) i paramilitari delle Rsf. Secondo gli esperti, i militari di al-Burhan puntano a prendere il controllo delle miniere d’oro e delle rotte del contrabbando, mentre le Rsf cercheranno di interrompere e controllare le principali arterie del Paese, a partire dalla strada da Port Sudan a Khartoum. L’enorme numero di aspiranti mediatori – tra cui gli Stati Uniti, le Nazioni Unite, l’Unione europea, l’Egitto, i Paesi del Golfo, l’Unione Africana e il blocco dell’Africa orientale di otto nazioni noto come Igad – potrebbe rendere qualsiasi sforzo di pace più complicato della guerra stessa. Ma girarsi dall’altra parte non è un’opzione, la crisi sudanese infatti è la dimostrazione che per l’Occidente abbandonare l’Africa all’influenza della Russia e della Cina significa affrontare nuove ondate di crisi e instabilità. La crisi umanitaria infatti procurerà un ulteriore aumento della pressione migratoria, anche verso l’Europa. Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per la gestione dei rifugiati (Unhcr) l’esodo dal Sudan potrebbe riguardare milioni di persone. 

Paese senza pace: colpi di stato, massacri e secessione

  • 1989 – Il colonnello Omar al-Bashir effettua un colpo di stato militare. Al-Bashir si nomina presidente nel 1993
  • 2003-2020 – Guerra in Darfur tra i gruppi ribelli del Movimento di liberazione del Sudan (Slm) e del Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (Jem) contro il governo, accusato di opprimere la popolazione non araba. Il governo risponde con una campagna di pulizia etnica contro i non arabi del Darfur. L’Onu stima fino a 300mila morti nei combattimenti.
  • 2009 – La Corte penale internazionale emette un mandato d’arresto per il presidente Bashir con l’accusa di crimini di guerra e contro l’umanità per il conflitto in Darfur.
  • 2011 – Il Sud Sudan ottiene l’indipendenza dopo anni di guerra con il governo centrale di Khartoum.
  • 2019 – L’esercito estromette il presidente Bashir dopo mesi di proteste contro il suo governo.
  • 2020 – Il Sudan firma un accordo di pace con il Sudan Revolutionary Front (Srf), coalizione di gruppi ribelli della regione occidentale del Darfur e degli stati meridionali del Kordofan e Nilo azzurro, per la pace nel Darfur.
  • 2023 – La lotta per il potere nel governo militare vede scoppiare scontri tra l’esercito regolare e membri delle forze paramilitari di supporto rapido (Rsf)