La Settimana Internazionale

La Cina ha bisogno di Usa ed Europa

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di Giuseppe Russo

E pur si muove! Potrebbe essere stata l’esclamazione di Xi Jinping alla crescita del Pil cinese nel 1° trimestre del 2023. Finalmente una percentuale (+4,5%) che ricorda gli anni ruggenti, quelli precedenti al 2007. Sì, perché la crescita del Pil cinese raggiunse il massimo nel 2007, ben sedici anni fa, e nei sedici anni successivi la Cina ha marcato il passo. Eppure il catching up non era davvero terminato 15 anni fa. Pur misurato a parità di poteri di acquisto (PPP), ossia usando tassi di cambio che consentano di paragonare il potere di acquisto del prodotto (e reddito) pro capite in Cina e negli Stati Uniti, le differenze nel 2007 erano ancora notevoli, perché il prodotto cinese era di 6.700 dollari (costanti a PPP del 2017), quello dell’eurozona 44.000 e quello degli Stati Uniti 55.000. La Cina, rallentando la crescita non ci ha raggiunto negli anni successivi, in termini di benessere pro capite. Nel 2021 i tre valori sono stati 17.000 dollari (Cina), 47.000 (eurozona) e 66.000 (Usa).

La prospettiva cambia se si considera la produzione totale di Pil a parità dei poteri di acquisto. In questo caso (figura 1) il sorpasso tra Cina e Stati Uniti (ed Unione Europea) è avvenuto nel 2016 a un valore della produzione complessiva di 19 trilioni di dollari (PPP del 2017). Da allora ad oggi la forbice si è allargata e la Cina ha messo circa 5 trilioni di dollari di distanza tra se stessa e Stati Uniti o Europa. Può darsi che sia un caso, ma nel discorso tenuto a Toronto il giorno precedente l’avvio dei lavori del G20, in quell’anno 2017 Xi disse: «… è un percorso che vede la Cina e il mondo abbracciarsi reciprocamente. Abbiamo perseguito una politica estera indipendente di pace e una politica fondamentale di apertura. Ci siamo sforzati di svilupparci in un ambiente aperto, iniziando con l’introduzione di investimenti all’estero su larga scala e poi andando a livello globale con grandi passi. Abbiamo partecipato attivamente alla costruzione di un ordine internazionale più giusto ed equo. L’interazione della Cina con il mondo esterno si è approfondita. Abbiamo amici in tutto il mondo».

Era l’inizio di una nuova fase, che cercava di portare all’incasso la preminenza economica cinese e che si sostanziò nel controverso progetto di “Via della seta”, ma non solo. Con gli investimenti esteri, i cinesi si affrancavano dall’investire solo nei titoli del Tesoro americano e incominciavano a lanciare il messaggio che avevano una moneta sicura, rivolgendolo in particolare ai Paesi emergenti. L’intenzione di affermare un ordine internazionale “più giusto ed equo” era insieme economica, monetaria e strategica, tanto che da allora accelerò anche l’investimento in armamenti. Si possono avere idee diverse a proposito del progetto di costruire una polarizzazione intorno all’economia e alla politica cinese, ma dal punto di vista delle imprese è importante capire quali potrebbero esserne gli esiti. Perché un conto è ridiscutere i termini della partecipazione all’economia mondiale, uscendo dal cono d’ombra del Paese fornitore di prodotti a basso costo e a basso contenuto di mano d’opera. Altro conto invece è proporsi come nuovo centro di un ordine politico ed economico. Lasciando stare la politica, dal punto di vista economico, quante chances avrebbe realisticamente questo progetto? Piuttosto ridotte, e vediamo perché.

Il punto da cui partire è che la Cina ha superato sia gli Stati Uniti, sia l’Europa, ma questi due semi-continenti più il Giappone, il Canada e l’Australia hanno un Pil aggregato (a PPP del 2017) di 51 trillioni, che si confrontano con i 24 della Cina. Quindi il sorpasso è parziale. È vero che la Cina potrebbe allineare i suoi principali (supposti) alleati, come la Russia, il Brasile (con cui ha stipulato un accordo di dedollarizzazione dell’interscambio commerciale) e l’India, ma tutti gli alleati della Cina sono deboli, non crescono quanto lei, e spesso non crescono quanto le economie sviluppate. Questo vuol dire che la forza della Cina è solitaria e tutti i suoi partner si devono appoggiare ad essa, più che sostenerne o aumentarne la forza.

Vediamo il secondo punto. Si tratta della disponibilità di risorse per gli investimenti, in altre parole parliamo del risparmio lordo. Esso si compone dell’insieme del risparmio delle famiglie, dei profitti non distribuiti e lasciati nelle imprese da investire, e infine del surplus di bilancio pubblico (negativo ovunque). Ora, se si considera l’intero risparmio annuale, la  Cina ha superato nel 2008 gli Stati Uniti e con 8 trilioni di risparmio lordo aggregato oggi ha il doppio di risorse investibili annualmente degli Usa e 7 volte quelle giapponesi, Paese di virtuosi del risparmio. Questo dato è alla base della formazione di tassi di crescita del Pil potenziale molto elevati, perché nei fatti permette l’accumulazione di capitali investito a un ritmo pari o uguale a quello di tutto l’occidente. Oggi come oggi, il tasso di risparmio sul Pil in Cina infatti è il 45%, mentre nell’Eurozona è del 26% e negli Usa del 18% (Italia, 23%).

Ora, bisogna però vedere quanto questa percentuale di Pil risparmiato e reinvestibile sia sostenibile nel lungo periodo. Il risparmio eccessivo corre infatti il rischio di essere bruciato dai cattivi investimenti se, come è ragionevole, la domanda di investimento presentasse tassi di rendimento attesi decrescenti al volume degli stessi (è l’efficienza marginale del capitale decrescente di Keynes). Ma poi c’è il fatto che il risparmio può essere bruciato prima di arrivare all’investimento dalla spesa per il welfare state. Attualmente il welfare state cinese è minimo. La spesa totale somma 3,66 trilioni di yuan su un Pil di 121, quindi il 3%. La stessa spesa nell’Ocse è del 21%. Aggiungendo le pensioni cinesi pari al 5,3% del Pil, si ha il confronto tra l’8,3 in Cina e il 21% nell’Ocse. Potrà mai continuare così? Difficile.

La spesa per il welfare State in Cina è destinata a crescere di almeno 10 punti di Pil nei prossimi venti anni, in conseguenza della dinamica demografica e dell’estremo invecchiamento della popolazione, conseguenza della politica pluridecennale di repressione demografica. Contrarre le nascite per distribuire più risorse per abitante comporta il rischio prima o poi di restare senza risorse e avere una popolazione anziana, bisognosa di costosi servizi sanitari e di pensioni. Cosa che sta per accadere, vista la dinamica attuale e prospettica del saldo tra nati e deceduti. Ormai i deceduti stanno per sorpassare i nati e la popolazione, pari 1,2 miliardi, a fine secolo sarà di 700 milioni appena, secondo le stime delle Nazioni Unite.

Pertanto, è possibile che negli anni a venire la Cina dovrà prelevare molto dal risparmio per pagare sanità e pensioni e questo ridurrà l’investimento potenziale e con esso la crescita del Pil potenziale. Raggiungere il livello di benessere occidentale, in altri termini, resterà un traguardo difficile da conseguire.

Veniamo ora all’ultimo punto. Se la supremazia economica conseguita è debole per la debolezza dei Paesi “vicini” alla Cina (Brasile, India, Russia) e se la crescita potrebbe essere ridotta dalle necessità dello Stato sociale, attualmente striminzito, come è messa la Cina negli scambi internazionali? La risposta è che essa è bene inserita in termini di valore e volume degli scambi, ma è così ben inserita negli scambi con l’occidente che i Paesi a lei vicini non potrebbero sostituire più di un decimo degli scambi con Ue, Usa, Giappone e altri.

La Cina esporta 3,3 trilioni di dollari verso il mondo e 2,6 sono le importazioni. L’interscambio quindi vale circa il 25% del Pil. Difficile davvero farne a meno, tanto più che il 53% delle esportazioni e il 47% delle importazioni riguarda i Paesi Ocse. Le percentuali di scambi con la Russia sono il 2 e 2,9%. Con l’India il 2,9 e il 2%. Gli Stati Uniti sono un partner essenziale per la Cina, da cui comprano 577 miliardi e alla quale ne vendono 181. Inoltre la Cina dipende davvero molto da Taiwan, da cui acquista il 9% delle sue importazioni, ossia 249 miliardi di dollari all’anno, probabilmente di semiconduttori.

Per concludere, nonostante le posture minacciose che la Cina assume periodicamente e il progetto di rendere il renminbi una valuta di riserva, la Cina ha numerose ragioni sostanziali per trovare punti di accordo sostenibili con le economie occidentali. La sua supremazia è indebolita da Paesi vicini che non possono sostenerla e chiedono di essere sostenuti. Il suo sentiero di investimenti potenziali potrebbe dover essere ridotto dalla crescita del welfare State e il suo Pil dipende moltissimo dall’interscambio commerciale con i Paesi Ocse e pochissimo da quello con gli altri Paesi emergenti. L’Italia vende 30 miliardi di dollari e compra 43 miliardi di dollari in Cina. Per le dimensioni del mercato cinese, il potenziale di espansione del commercio estero made in Italy in Cina sono ancora notevoli.