La Settimana Internazionale

La solitudine di Zelensky e l’aggressività di Putin

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di Claudio Brachino

Nella vicenda ucraina ci sono due aspetti che vivono ormai paralleli, quello linguistico della comunicazione, o se vogliamo simbolico, e quello militare e diplomatico, se vogliamo geopolitico. Cominciamo dal primo. Da quando è iniziata la crisi mediorientale, non solo nella grammatica dei media ma anche nella grammatica della diplomazia del mondo la crisi ucraina è scivolata un po’ in secondo piano.

Soprattutto è stata molto forte la discussione negli Stati Uniti, dove le elezioni del 2024 si avvicinano con la guerra fra democratici e repubblicani che si è spinta fino a una battaglia veramente molto forte nel Congresso sul rifinanziamento agli aiuti per l’Ucraina. Che cosa sta succedendo? In questa dimensione, Zelenski – ecco qui l’atteggiamento comunicativo nuovo –  da eroe si è sentito abbandonato. Si è sentito messo in disparte. Ma non è una sensazione soltanto psicologica o mediatica. È anche una sensazione strettamente politica, nel senso che gli aiuti del principale partner in questa situazione, gli Stati Uniti, rischiano davvero di diminuire, di diventare troppo fragili rispetto agli impegni militari che Zelenski si è preso con il suo popolo, ovvero affrontare l’inverno con un’armata rossa tornata molto aggressiva per volontà di Putin, con 170mila uomini e nuove armi su tutto il fronte del Donbas e con i bombardamenti che continuano su Kiev e su Odessa.

La moglie di Zelenski è arrivata a dire addirittura che senza gli aiuti dell’Occidente loro sono praticamente morti. Cioè la fine. La vittoria di Putin. E allora Zelenski, e qui veniamo alla politica, è andato in America per incontrare i parlamentari americani e lo stesso Biden; è andato a chiedergli aiuti in prima persona, dicendo che la battaglia per il suo Paese è la battaglia per la libertà e per la democrazia in tutto l’Occidente, che l’Ucraina è l’ultimo fronte dell’Occidente prima dell’avanzata di Putin, anche in altri Paesi che oggi vivono in quella zona, come i Paesi baltici. Quindi ha posto la questione in termini molto drammatici. Pare che abbia avuto successo: entro la fine dell’anno Biden convincerà anche i repubblicani a un nuovo piano di aiuti. Aiuti che saranno militari e anche inevitabilmente economici.

E l’Europa? L’Europa sta sempre in un certo senso a guardare ma mantiene una sua coerenza, tant’è vero che in questo momento sono di più, quasi involontariamente, gli aiuti europei che quelli americani. Ma cosa c’è in gioco (e veniamo alla questione geopolitica)? C’è in gioco il fatto che la situazione in Ucraina dovrà trovare uno sbocco, perché l’idea di un cessate il fuoco soltanto quando Zelensky avrà recuperato i suoi territori perduti, cioè la Crimea e il Donbas, pare davvero improbabile.

Poi sull’aspetto geopolitico c’è il nuovo protagonismo di Putin, che va nei Paesi arabi, che rafforza la sua alleanza con la Cina, che dice a tutti i paesi asiatici che contano, soprattutto quelli dei petroldollari, «Io sono l’alternativa all’Occidente». Il dominio dell’Occidente dopo 500 anni, dicono gli uomini di Putin, finisce qui.

La Russia si pone definitivamente con queste parole fuori dall’Europa, in un altro contesto, in un’altra dimensione di equilibri che è quella verso cui sta andando il mondo – e in questo sarà decisivo anche lo scacchiere del Medio Oriente -. Un equilibrio nuovo, che non è del tutto chiaro neanche agli analisti.