La Settimana Internazionale

Non è ufficiale, anzi sì: la corsa alla Casa Bianca sarà Biden-Trump

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Di Anna De Orfel

Temuta, maledetta, invocata o anche solo sperata, la rivincita è ufficiale. Salvo colpi di scena a oggi non preventivabili, alle elezioni presidenziali americane del prossimo novembre si affronteranno i due presidenti che si sono combattuti nella tornata precedente, tra polemiche asperrime tutt’altro che sopite: il democratico Joe Biden, numero uno in carica, e il predecessore repubblicano Donald Trump. Se qualcuno aveva dei dubbi, o delle speranze, che non fossero loro i controversi protagonisti della corsa alla Casa Bianca è stato definitivamente smentito dalle rispettive vittorie a valanga nel Super Tuesday, la tornata più attesa delle primarie.

Si è votato in un colpo solo in 15 stati: sette a maggioranza repubblicana (Alabama, Alaska, Arkansas, Oklahoma, Texas, Tennessee, Utah) e sei considerati stabilmente democratici (California, Colorado, Maine, Massachusetts, Vermont e Virginia). A cui si aggiunge il territorio americano delle Samoa. Tutto è andato come previsto, con Trump e Biden che fanno vinto a man bassa facendo incetta della quasi totalità dei delegati in palio, circa un terzo di quelli complessivi; compresi i bottini più ricchi, quelli di California e Texas, i due stati più popolosi del Paese. E di fatto hanno ipotecato la nomination e quindi il rematch nelle elezioni di novembre.

In Colorado Trump ha potuto presentarsi all’ultimo momento: solo 24 ore prima la Corte suprema ne aveva confermato l’eleggibilità. I giudici hanno accolto all’unanimità il ricorso dell’ex presidente contro la decisione della Corte suprema statale dello stato occidentale di bandirlo per le sue responsabilità nell’assalto al Campidoglio, in base alla sezione 3 del 14° emendamento, che vieta le cariche pubbliche ai funzionari coinvolti in insurrezioni contro la Costituzione. Senza entrare nel merito delle dichiarazioni, la Corte suprema federale ha affermato che non è compito degli Stati decidere, cosa che creerebbe caos e «situazioni conflittuali tra uno Stato e l’altro». Una sentenza che farà da precedente per tutti gli altri ricorsi pendenti in altri Stati.

Il Super Tuesday ha poi confermato che politicamente dal punto di vista geografico l’America è divisa in due: la parte urbana e plurale nelle coste e sui laghi, e quella rurale e tradizionalista al sud e all’ovest. Poche le sorprese: la rivale repubblicana del tycoon, Nikki Haley, gli ha strappato il Vermont, secondo successo dopo la capitale. Un successo alla fine inutile, visto che la sua sorte è segnata: subito dopo il voto ha fatto sapere che non intende mollare, e di voler puntare sullo zoccolo duro di elettori moderati o indipendenti che non amano Trump. Ma secondo la CNN, che cita fonti ben informate, l’ex ambasciatrice Usa all’Onu si prepara a breve ad annunciare il passo indietro.

L’altra sorpresa arriva proprio dalle isole Samoa, dove il leader dem ha perso contro uno sconosciuto candidato locale, l’imprenditore Jason Palmer. Da segnalare anche che Biden ha ritrovato nelle urne di alcuni stati, come il Minnesota, la protesta del voto arabo per il sostegno a Israele nonostante il “genocidio” a Gaza. Una variabile, quest’ultima, che il presidente uscente non dovrà sottovalutare: il Minnesota, che ha tendenze al blu (il colore dei democratici)  è uno degli stati cosiddetti “swing”, oscillanti, che nelle urne di novembre possono fare la differenza: lo sa bene Trump che nel 2020 perse a causa dei voti di Arizona e Georgia, e Al Gore che nel 2000 perse per 537 voti  la Florida, che gli costò l’elezione.

La competizione elettorale di fatto è già partita, anche senza nomination. Per i Repubblicani c’erano 865 delegati in palio, Trump se li è assicurati quasi tutti: potrebbe arrivare ufficialmente alla quota necessaria il 12 marzo, quando si voterà alle Hawaii, in Mississippi, in Georgia e nello stato di Washington, o il 19 quando voteranno altri 5 stati. Biden deve invece raccogliere 1.968 candidati: nel Super Tuesday ce n’erano in palio 1.420, e anche lui ha fatto quasi il pieno.

Lo scontro tra i due candidati non si annuncia meno ricca di colpi bassi della precedente, a giudicare dalle dichiarazioni e dagli attacchi, con contorno di insulti e foto taroccate con l’intelligenza artificiale. I due sfidanti si sentono già sul ring.

«Vinceremo queste elezioni perché non abbiamo scelta»

ha detto Trump nel suo resort di Mar-a-Lago, dove domenica ha incontrato anche Elon Musk e altri finanziatori repubblicani, a caccia di soldi per la sua campagna ma anche per pagare i quasi 500 milioni di dollari sanzioni accumulati per le vicende degli asset gonfiati.

«Se perdiamo queste elezioni, non avremo un Paese»

ha aggiunto. Una frase che rinvia al suo bruciante discorso a Washington il 6 gennaio 2021, prima del più sfrontato attacco alla democrazia nella storia americana, concluso con l’assalto a Capitol Hill da parte dei suoi sostenitori.

Biden, che cerca di nascondere le sue vulnerabilità su questioni come l’immigrazione e l’economia, ha anticipato un argomento che sarà un leit motiv della sua campagna per il secondo mandato:

«I risultati di stasera lasciano al popolo americano una scelta chiara: continueremo ad andare avanti o permetteremo a Donald Trump di trascinarci indietro nel caos, nella divisione e nell’oscurità che hanno definito il suo mandato?»

Insomma, gli americani si trovano ad affrontare un dilemma esistenziale. Se Trump tornasse alla Casa Bianca,

«tutti questi progressi sarebbero a rischio. È guidato dal risentimento e dalla truffa, concentrato sulla propria vendetta e punizione, non sul popolo americano. È determinato a distruggere la nostra democrazia… e farà o dirà qualsiasi cosa per mettersi al potere»

«Stasera la campagna è iniziata», ha detto martedì sera alla CNN il copresidente della campagna nazionale di Biden, Mitch Landrieu. «Fino ad ora, la gente non pensava che sarebbe stata una battaglia tra Biden e Trump, ma eccoci qui e siamo pronti a partire», ha detto.

Il match si annuncia avvincente, e tutt’altro che scontato. Da una parte lo sfidante rancoroso, il “presidente mancato” che ancora denuncia brogli elettorali di cui fu vittima quattro anni fa, con un grande sostegno tra i repubblicani; con la sua più grande debolezza ancora in agguato, il carattere e l’estremismo  che gli alienano il voto degli elettori più moderati e suburbani. Senza contare che sulla sua testa pendono due impeachment, 91 accuse penali, quattro processi penali, una devastante sentenza di un tribunale civile da 450 milioni di dollari. La Corte suprema ascolterà Trump il 22 aprile sul caso sull’immunità presidenziale, che lui continua a invocare nel processo federale di Washington per i tentativi di sovvertire il voto del 2020. Secondo molti osservatori, la decisione sull’eleggibilità in Colorado non significa che otterrà anche l’immunità, ma i giudici potrebbero fare in modo che il processo non si apra prima delle elezioni.

Dall’altro lato il presidente uscente Biden, che nei sondaggi conta numeri a dir poco depressi nonostante gli innegabili successi in economia e nella lotta al Covid: il fatto è che non è ancora percepito da tutti come la vera alternativa a Trump. E se sul piano giudiziario gli è andata meglio del rivale, e ha evitato l’incriminazione per aver conservato e divulgato materiali sensibili per la sicurezza nazionale quando era un privato cittadino, sul piano elettorale la motivazione del procuratore che lo ha assolto non lo aiuterà di sicuro: «Sarebbe difficile convincere una giuria a condannarlo, è un uomo anziano e con una scarsa memoria».