La Settimana Internazionale

Patto di stabilità Ue, riforma radicale per le regole di bilancio

Scritto il

di Lorenzo Consoli

Stanno entrando nel vivo i negoziati sulla proposta di riforma del Patto di stabilità sui bilanci degli Stati membri dell’Ue, o della “nuova governance economica”, secondo la definizione della Commissione europea. La Commissione ha presentato la proposta il 26 aprile, e c’è già stata una prima discussione tra i ministri delle Finanze dei Ventisette durante il Consiglio Ecofin informale di Stoccolma, nello scorso fine settimana. L’obiettivo è arrivare all’approvazione definitiva entro la fine dell’anno.

La proposta mira, come ha detto il commissario Ue all’Economia, Paolo Gentiloni, a «rendere più graduale, e quindi più credibile, il percorso di riduzione del debito» per i Paesi in cui è più alto, e a «rendere possibile un incremento degli investimenti e delle politiche per la crescita». Lo fa con una riforma abbastanza radicale, rispetto alle regole esistenti, che erano state irrigidite oltremodo con la precedente revisione del Patto di stabilità nel 2011, quando era in auge la politica dell’austerità voluta dalla Germania e dai suoi alleati, che ha bloccato gli investimenti pubblici e depresso la crescita.

Il Patto è stato sospeso negli ultimi tre anni, come prevedeva una sua regola di salvaguardia, applicata in risposta alla crisi della pandemia di Covid e prorogata poi a seguito della guerra russa in Ucraina. La clausola di sospensione, tuttavia, scadrà alla fine di quest’anno, e la revisione delle regole, su cui la Commissione aveva lanciato il dibattito già prima del lockdown pandemico, il 5 febbraio 2020, è quanto mai necessaria e urgente.

Innanzitutto, secondo la proposta della Commissione, resterà sostanzialmente invariata la procedura sui deficit eccessivi: un Paese con un disavanzo che superi il 3% rispetto al Pil dovrà tornare sotto la soglia con uno sforzo di bilancio pari allo 0,5% all’anno. Le maggiori novità sono invece relative al modo di applicare l’obbligo di ridurre il debito pubblico quando eccede l’altra soglia, quella del 60% del Pil.

Il modo migliore per leggere la riforma è forse proprio quello di stilare l’elenco degli errori che si vogliono correggere.

Verrà abrogata innanzitutto la famigerata regola che prescriveva tagli al ritmo di 1/20 all’anno del debito eccedente la soglia del 60%. Per l’Italia, che è oltre il 140%, significherebbe oggi una riduzione annuale di più di 4 punti percentuali del rapporto debito/Pil.

La seconda innovazione più importante per i Paesi più indebitati riguarda i percorsi di aggiustamento dei bilanci, percorsi che verranno individualizzati, ovvero elaborati “su misura”: si terrà  conto delle diverse condizioni di ogni Stato membro, partendo da un’analisi della sostenibilità del debito, e prevedendo tempi più lunghi e più realistici, da quattro a sette anni, per le correzioni. Con alcuni caveat: alla fine del periodo previsto dal piano di aggiustamento, il livello del debito pubblico non potrà essere superiore a quello iniziale (e non è indicato di quanto debba essere inferiore); inoltre, lo sforzo strutturale di bilancio dovrà avvenire secondo una media annuale proporzionata che non lo rinvii all’ultimo momento.

In terzo luogo, cambiano completamente gli indicatori di riferimento per valutare se un Paese stia procedendo correttamente lungo il percorso di rientro: non si parla più di ‘”Obiettivo di bilancio di medio termine” (Mto), che è citato ben 57 volte nell’attuale regolamento sulle “procedure per i deficit eccessivi”, e che fissava per tutti gli Stati membri un traguardo per il deficit “strutturale” tra lo 0,5% e l’1% del Pil, da raggiungere a tappe forzate.

E non si parla più neanche di “saldo strutturale di bilancio”, né di “crescita potenziale”, né di “output gap”, tutte grandezze “difficilmente osservabili” (come le ha definite il vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis), che rendevano oltremodo complicato e anche piuttosto arbitrario il giudizio sulla “deviazione significativa” (altro concetto che non verrà più applicato) dai percorsi di aggiustamento.

Per ridurre il debito pubblico, verrà applicato invece un solo indicatore: il “percorso della spesa netta”, ovvero il tasso di crescita della spesa pubblica al netto degli interessi sul debito, della parte controciclica degli stabilizzatori automatici (per esempio sussidi disoccupazione o cassa integrazione in tempi di crisi), delle spese che non dipendono dai governi e della spesa finanziata dall’Ue nei programmi e progetti comunitari che sono co-finanziati dagli Stati membri.

Il concetto è semplice, facilmente applicabile e pienamente sotto controllo dei governi: i Paesi più indebitati dovranno mantenere l’aumento della loro spesa pubblica netta al di sotto del tasso di crescita effettivo registrato negli anni compresi nel piano di rientro. Anche in questo caso, c’è una modifica importante rispetto alle regole attuali, che già prevedevano questo indicatore (insieme agli altri che verranno abrogati), ma prendendo come riferimento il tasso di crescita “potenziale”, non quello effettivo osservato.

Di quanto l’aumento della spesa netta dovrà essere inferiore al tasso di crescita? Questo dipenderà dal percorso deciso, sulla base di una “traiettoria tecnica” che la Commissione elaborerà per ogni Stato membro che superi le soglie, rispetto al Pil, del 3% per il deficit e del 60% per il debito, e che sarà comunque oggetto di negoziati tra Bruxelles e il Paese interessato, prima di essere approvata dal Consiglio Ecofin. Va notato, comunque, che nel percorso di aggiustamento non si chiederà più una riduzione percentuale annuale del rapporto debito/Pil, ma uno sforzo strutturale di bilancio, in percentuale del Pil.

L’ultimo elemento importante riguarda la presa in conto delle riforme e degli investimenti per gli obiettivi previsti dalle “priorità comuni dell’Unione” (transizione energetica, climatica e digitale, diritti sociali, Difesa), per rafforzare la crescita e la sostenibilità di bilancio (riforme fiscali e della spesa pubblica), e per rispondere alle “raccomandazioni specifiche per Paese” formulate dalla Commissione europea. Qui la riforma non è arrivata al punto di introdurre la cosiddetta “golden rule”, che creerebbe più spazio di bilancio considerando in una contabilità separata la spesa per queste riforme e investimenti.