Le opinioni

E se ad essere sbagliati fossimo noi e non i giovani?

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C’è una parola nuova alla quale dovremmo cominciare a fare caso. Immancabilmente inglese, l’ha coniata il consulente del lavoro americano Joe Mull. È “Employalty”, crasi tra “dipendenti” e “lealtà”.

La domanda che fa Mull è molto semplice (mi piace il modo sintetico con il quale molti anglosassoni arrivano subito al nocciolo delle questioni) ed è questa: la vostra azienda è un’organizzazione di partenza o un posto di lavoro di destinazione?

Nel senso: da voi la gente viene assunta e formata per restare oppure alla prima occasione se ne va? O invece siete riusciti a costruire un’azienda nella quale le persone arrivano e vogliono farsi assumere per poter lavorare serenamente e in modo proficuo?

Detto in un altro modo: come gestire un mercato del lavoro che sta diventando schizofrenico? Mancano i posti e al tempo stesso chi viene assunto dopo un po’ decide di andarsene. Quali sono i motivi? Cosa si può cambiare per evitare che accada, dopo aver speso tempo e denaro per creare un collaboratore capace, competente, allineato con le pratiche operative, conosciuto dal resto della squadra e dai clienti o fornitori? Quando accade lo stesso, cosa c’è che non va?

Sul concetto di “Employalty” Joe Mull ci ha scritto un libro. L’idea di fondo è che ci sia un problema generazionale di ricambio della forza lavoro: i valori non sono più gli stessi, gli incentivi non funzionano negli stessi modi, le prospettive sono in alcuni casi drammaticamente diverse.

La versione più semplicistica e consolatoria, che ci raccontiamo soprattutto noi in Europa (e l’Italia in questo eccede) è che i lavoratori di oggi siano dei fannulloni. Una generazione con i pollicioni appiattiti dagli schermi degli smartphone e capace di rispondere solo a monosillabi, senza vere ambizioni ma solo tatuaggi.

Il tema però non è così semplice né scontato. Perché, come accade sempre nella vita, occorre vedersi dal di fuori e cercare di capire che cosa sta succedendo davvero agli altri ma soprattutto a noi, per capire come appariamo noi ai loro occhi e non viceversa. E come ci presentiamo? Ho incontrato un paio di imprenditori nostrani che mi hanno sostanzialmente detto: non sono i ragazzi e le ragazze che vengono a lavorare da me quelli che non vanno bene per noi. Invece, siamo noi aziende che non andiamo più bene per loro.

La domanda a questo punto diventa: se è vero che l’era in cui si cercava di trovare la persona migliore per il lavoro è finita, cosa succede adesso? In un momento di cambiamento in cui bisogna riuscire ad adattarsi a pena il collasso di qualsiasi azienda, a prescindere dalle dimensioni, i datori di lavoro cosa possono fare per attrarre le persone che vogliono?

L’epoca di Google che regalava il sushi a pranzo e metteva i biliardini nelle sale comuni è abbondantemente finita. Sta a noi “vecchi” guardarci dentro e trovare un modo diverso. La lezione di Mull è che l’”employalty” non va tanto cercata. Invece, va guadagnata.