Le opinioni

Dipendenti come i clienti: vanno cercati, educati e coccolati

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di Antonio Dini (Giornalista e scrittore)

A chi non è venuto in mente di cambiare lavoro? Dire: «Mollo tutto e ricomincio da un’altra parte»? È un desiderio diffuso, apparentemente comune a tutte le generazioni. Giusto? No, in realtà le cose non stanno esattamente così.

Il cambiamento è legato ai differenti periodi storici. Spiegano gli studiosi che ci sono state epoche in cui cambiare lavoro era considerato un disonore, oltre che praticamente impossibile. Nelle società più arcaiche, se nascevi contadino od operaio voleva dire che eri figlio di contadini o di operai e che saresti stato genitore di altri contadini o di altri operai. Mobilità sociale praticamente nulla, però tutte la voglia di cambiare era talmente forte che ogni tanto scoppiava la rivoluzione. La mobilità sociale era comunque desiderata.

Ci sono state poi altre società in cui era accettabile che si potesse cambiare lavoro, ma in un solo modo e molto particolare: doveva avvenire per interposta persona. Nell’Italia del Dopoguerra, quella dei nostri nonni per intendersi, si lavorava fino a spezzarsi la schiena con l’obiettivo di far studiare i figli e procurare un lavoro migliore per loro. Un obiettivo che si traduceva nella formula di rito: «Mio figlio grazie al Cielo ha trovato un bel lavoro» che di solito era recitata con un sospiro di soddisfazione da madri e padri affaticati, ma grati perché tutti i sacrifici fatti erano effettivamente andati a buon fine.

Poi siamo passati all’idea di una carriera dentro una grande azienda: sempre la stessa azienda, per carità. Questa idea ha segnato gli anni dello sviluppo economico del nostro Paese. Era ovviamente una grande azienda del Nord che assumeva i neolaureati a poco più di venti anni e li lasciava 40 anni dopo, per mandarli in pensione di anzianità con un bell’orologio d’oro come premio-fedeltà. Bei tempi, finché sono durati.

Dopo siamo passati alla società in cui si saltava da un lavoro all’altro una o magari addirittura due volte nel corso di una vita professionale. Erano colpi pianificati come Blitzkrieg, guerre lampo che dovevano dare la vittoria assoluta oppure portare alla disfatta totale. Telefonate segrete, colloqui garibaldini a tarda sera, il timore di farsi scoprire e perdere il posto senza averne conquistato uno nuovo. Tutto per passare da un’azienda alla sua concorrente, cose che adesso si fanno senza problemi su Whatsapp e Meet durante lo smart working.

Noi viviamo invece un’epoca in cui l’infedeltà lavorativa è arrivata a un punto tale che non si parla neanche più di quale lavoro uno vuole fare ma di come fare per cambiarlo. Una certa posizione non vale più per quello che può offrire, ma solo per le opportunità che apre. Un’epoca di grande promiscuità.

Sembrava di aver visto proprio tutto ma poi, con la pandemia, siamo passati dall’infedeltà strutturata a qualcosa di ancora diverso. Ci vogliono i soliti termini inglesi per spiegarlo: «quiet quitting», cioè dimissioni di massa che caratterizzano il quadro psicologico delle nuove generazioni (nome in codice: Millennial e Gen Z). Secondo il ministero del Lavoro, nel 2023 il 74% dei giovani italiani assunti vorrà cambiare azienda. E questo si trasforma in un costo davvero notevole per le aziende.

I dipendenti infatti sono come i clienti: attrarne di nuovi costa caro perché vanno cercati, educati e coccolati. Da tempo le aziende che lavorano al pubblico hanno capito che costa meno trattenere un cliente già acquisito che trovarne uno nuovo. Adesso, finalmente, stanno capendo che lo stesso vale anche per i dipendenti.

Le attività di «internal reshuffle» (la mobilità interna) e il «quiet hiring» (l’acquisizione di nuove competenze, tramite upskilling), hanno assunto un ruolo cruciale. Dopotutto, sono solo vent’anni che parliamo dell’importanza della formazione continua e dieci della trasformazione digitale, che è prima di tutto e soprattutto una trasformazione culturale, non solo tecnologica. Qual è il modo? Se c’è un obiettivo è chiaro che per raggiungerlo servono idee altrettanto chiare: dare nuove competenze alle persone che lavorano in azienda per motivarle oltre che farle crescere, sia con la formazione che con nuove opportunità di carriera interna.

Se pensate che questo vada solo a vantaggio dell’azienda, sbagliate. L’obiettivo non è soltanto la fidelizzazione dei dipendenti, quanto il coronamento del loro sogno. Tutti desideriamo cambiare lavoro, di quando in quando. Tutti ci stufiamo dell’esistente e tutti vogliamo sfide nuove o semplicemente un nuovo giro di roulette per ripartire, ma senza perdere gli anni di anzianità. Allora, perché lasciare che questo desiderio legittimo dei dipendenti si trasformi in una migrazione di persone, cioè alla fine in un grande spreco? Potremmo permettere ai dipendenti di cambiare lavoro senza cambiare azienda, usando le leve della formazione e dell’upskilling. Sarebbero più felici loro e sarebbe meglio anche per le aziende.