Le opinioni

È (forse) il momento di lasciare LinkedIn

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A cosa serve veramente LinkedIn? Me lo sono chiesto tante volte, anche perché lo uso pochissimo.

Tuttavia, quasi un riflesso condizionato, quando partecipo a qualche incontro con studenti o neolaureati, suggerisco sempre di aprire o aggiornare il proprio profilo e di cercare attivamente di connettersi con le persone più grandi di loro che incontrano nel corso della propria nascente carriera. E di seguire marchi e aziende di interesse nei settori che li riguardano.

Dopotutto, gli dico, LinkedIn è un marketplace dove trovare lavoro: sia automaticamente sia tramite la costruzione di contatti e l’invio di messaggi e richieste appropriate. O forse no?

A luglio su LinkedIn c’erano 950 milioni di persone. Questo vuol dire che presto il “social del lavoro” (come lo chiamano alcuni) si appresta a superare la soglia del miliardo di utenti. Se ci pensate, quello dei nove zeri in ambito social è un club molto esclusivo: mi vengono in mente solo Facebook, Instagram, TikTok, Twitter (cioè X). LinkedIn cosa c’entra? Cos’ha fatto per diventare così grande? E perché adesso è diventato così “strano”?

In parte hanno giocato due fattori: Microsoft e la pandemia. È stato uno di quegli incontri “fortunati” di cui non si parla mai, ma ha fatto la differenza. Nel 2003 quando è stato fondato LinkedIn era semplicemente un deposito online dove le persone caricavano il proprio curriculum.

Non c’era ancora neanche la parola “cloud” per definirlo. L’acquisizione da parte di Microsoft ha cambiato completamente la strategia, alquanto limitata, di LinkedIn e, in quattro anni, dal 2021 al 2023, il numero dei post pubblicati è aumentato di più del 40%.

Più post vuol dire più engagement ed è ovviamente un aspetto positivo per le metriche di chi gestisce il social. Peccato che buona parte di questo non sia andato dove si potrebbe immaginare (cioè a rendere le relazioni tra futuri datori di lavoro e futuri dipendenti più veloci e facili) quanto in pubblicità. Spesso marginale: eventi, conferenze, attività di marketing di aziende o di “professionisti” al limite dello spam.

Per un po’ ho pensato che forse ero io, era colpa mia. Il mio network, le persone che frequento digitalmente. Poi, all’ennesimo contatto da qualche spammer che voleva vendermi servizi o chiedermi direttamente soldi, ho deciso di prendermi un mezzo pomeriggio e cercare di capire meglio cosa stesse succedendo.

Quel che è cambiato di più, ho scoperto, è il contenuto dei post. Infatti, LinkedIn si è trasformato in un social media molto strano anche per chi lo frequenta più o meno quotidianamente. Ci sono post sulle minime attività professionali: prossimi allo zero gli endorsement, a tutta birra invece i momenti di ego. Non solo quelli professionali, però.

Dentro ci va sempre più vita privata: chi si sposa, chi divorzia, chi perde un parente stretto, chi mostra tutta la sua rabbia o gioia per questo o quel risultato politico o questo o quel risultato sportivo. Chi parla di cani, gatti, chi mostra foto di cani e gatti. C’è di tutto. Certo, in un’epoca in cui la responsabilità sociale d’impresa è letteralmente evaporata diventando in parte il centro delle strategie aziendali (ambiente, privacy, integrazione) è ovvio che le conversazioni debbano cambiare. Ma siamo sicuri che debbano cambiare così?

Un posto che una volta era “serio”, nel senso di focalizzato su bisogni lavorativi, dove si potevano trovare informazioni utili e magari anche un posto (o un dipendente promettente), è ancora tale? Soprattutto, se il punto non è più trovare lavoro o persone che lavorano, ma avere una “versione Generazione X” di Facebook, perché dovremmo farne ancora parte? Secondo me potrebbe essere arrivato il momento di andarsene. E, prima di farlo, mi raccomando, ricordate di scaricare e cancellare i vostri dati: appartengono a voi, non a LinkedIn.