Le opinioni

E tu, la spegni la telecamera quando usi Zoom o Teams?

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Non avremmo mai dovuto vedere le nostre facce così tanto. Ogni tanto ripenso a questa frase che ho letto da qualche parte poco dopo la pandemia, e che mi ha colpito non solo per il contesto in cui era stata pronunciata. Oggi non se ne parla praticamente più, ma tre anni fa eravamo preoccupati per il sovraccarico di videoconferenze: la “fatica da Zoom”, di cui sembra ci siamo tutti dimenticati. All’epoca invece c’era chi osservava che, al di là di tutto, c’è anche un limite quasi fisico all’esposizione che possiamo avere di noi stessi. Ed è un limite che oggi è molto facile da superare. Anzi, è già stato superato da molti di noi, in parte perché facciamo finta che sia normale.

Invece, non lo è. Avete mai pensato a quanto spesso vi vedete nelle chiamate Zoom e Teams, nei selfie o nei video di famiglia? Se avete perso il conto delle ore passate su Meet non è un problema, perché in realtà l’abbiamo perso tutti. Dato che stiamo vivendo un periodo di costante attività “riflessiva” (in senso letterale), vale la pena chiedersi se e come questo ci stia cambiando. La risposta breve è che sì, ci sta cambiando. Il come è più complicato.

Secondo un numero crescente di psicologi e neuroscienziati l’attenzione ai nostri corpi e alle nostre immagini ha cambiato il nostro senso del sé. Il nostro aspetto è diventato “ciò che siamo” e non più ciò che pensiamo, o quel che valiamo, o il ruolo che abbiamo, o le emozioni che proviamo. Siamo per la prima volta solo quel che sembriamo. E questo è un punto di vista radicalmente diverso da quello delle generazioni precedenti: persone per le quali l’identità o il senso di sé riguardavano il proprio carattere o il proprio ruolo.

Per alcuni (una volta si sarebbe detto “i più deboli”, ma oggi chi non lo è?) sta diventando una patologia, anzi una forma di narcisismo irrefrenabile. Per la maggior parte di noi, però, ha anche un altro effetto: ci rende sempre più centrati su noi stessi, quindi meno capaci di empatia, che è una delle emozioni fondamentali per entrare in relazione con gli altri.

Il riflesso nel mondo del lavoro non potrebbe essere più chiaro. La mancanza di empatia riduce la capacità di gestire le relazioni mentre il narcisismo allontana da comportamenti razionali: c’è un calo visibile nella comunicazione tra le persone sul lavoro, ed è un paradosso visto che siamo tutti inondati di videocall.

Da questo quadro esce fuori una forma di egoismo di massa. Che aumenta la conflittualità sul lavoro, il senso di disagio e di insoddisfazione, il bisogno di cambiare perché il posto dove ci troviamo non soddisfa le nostre esigenze. Vogliamo anche noi “mollare tutto” come quelli che sui social postano foto del chiringuito dove vivono e lavorano, perché (sembra che) ce l’hanno fatta.

Invece, il risultato finale è che, come accade sempre nelle personalità narcisiste, chi si specchia costantemente con l’immagine di se stesso non solo perde buona parte della sua capacità di avere relazioni con gli altri, ma perde anche la resistenza necessaria a superare le inevitabili crisi della vita. Un rifiuto, una bocciatura, un licenziamento, una separazione. Questo succede soprattutto nelle persone più giovani, che non hanno ancora avuto modo di costruire le loro difese e che, di fronte a uno scontro, subiscono dei traumi a volte durissimi oppure reagiscono con violenza fuori scala (le due cose spesso avvengono insieme).

L’eccesso di selfie ci sta logorando in modi insospettati. Dal punto di vista storico, la nostra identità era fortemente legata al luogo in cui vivevamo, alle nostre famiglie, ai nostri amici e alla nostra attività lavorativa. Oggi è sempre più connessa con la nostra immagine e basta. Non sappiamo ancora quale sarà l’impatto complessivo di una esposizione sistematica e frequente di noi stessi sulla nostra mente e sulla nostra società. Però la consapevolezza che non sarà qualcosa di buono dovrebbe farci riflettere. E autorizzarci a tenere spenta la telecamera nella prossima Zoom.