Le opinioni

Essere competitivi a otto anni non ci renderà lavoratori felici

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di Antonio Dini
(Giornalista e scrittore)

Siamo diventati troppo competitivi e per questo infelici? L’altro giorno leggevo un libro di storia del Giappone di George Bailey Sansom. È un libro molto bello, nonostante sia stato scritto negli anni Cinquanta, e la parte in cui racconta la storia del Giappone medievale in particolare è sublime.

L’organizzazione di quel Paese, all’epoca completamente chiuso alle influenze esterne, era di tipo feudale. L’imperatore era solo una facciata, i Daimyo, i nobili, erano quelli che comandavano realmente e il loro potere era supportato dalla classe militare dei samurai. Una società che meno capitalista di così non si può immaginare. Ma la cosa che mi ha colpito è stato un passaggio di Sansom.

L’idea cioè, scrive Sansom, che l’intera organizzazione del potere di quella società, per mantenere un ordine stabile, fosse basata sui valori dei samurai, i più importanti della loro epoca. Solo che quei valori (e quelle persone) per noi sono estremamente violenti e pericolosi. Addirittura criminali. Come quel samurai che mozzò la testa a un sottoposto perché aveva starnutito durante una cerimonia e poi condannò la sua famiglia all’esilio e quindi a morte certa.

L’idea è piuttosto semplice: ogni società costruisce il suo ordine e poi, per riuscire a conservarlo, coltiva fin dalla scuola i valori che permettono di mantenerlo. Ma questo non vuol dire che siano valori che meritano di essere perseguiti.

Nella nostra società, che mette un’enfasi particolare sul concetto di concorrenza, le persone di successo sono quelle più competitive che arrivano ai vertici delle aziende. Gli eroi del nostro tempo sono loro; i capitani coraggiosi e vincenti. Se fortunati, solo perché la fortuna aiuta gli audaci.

Il problema è che la competitività si trasforma in un valore che viene spalmato sull’intera società. Il mercato chiede competitività, la società la produce, le persone la interpretano. A partire dalla scuola primaria, dove gli insegnanti sono ritenuti bravi nel loro lavoro se formano bambini capaci di competere per i test di ammissione che incontreranno nel corso della loro carriera scolastica.

Non importa se i bambini hanno sette anni e i test arriveranno a 18: l’importante è essere pronti a competere. Questa attitudine sarà per sempre parte della loro vita lavorativa e non solo. Vogliamo parlare di come viene praticato lo sport oggi? È costruito su valori di competizione, non di eccellenza. E lo stesso nei social, che sono stati ingegnerizzati per convincere le persone a massimizzare il numero dei propri follower aumentando la propria visibilità tramite esibizioni e litigi.

Quali valori fa emergere questa visione della società in cui una maestra insegna ai bambini di otto anni a essere competitivi e gli hobby sono uno spietato allenamento al lavoro? Certamente non la patologia mentale che definiva la casta militare giapponese del Medio Evo.

Invece, la nostra competitività lavora sull’autostima. E la fa ingigantire. L’autostima, come tutte le emozioni, è necessaria. Troppo poca è una patologia, ma anche un eccesso diventa deleterio. Si trasforma in narcisismo e il narcisismo è una patologia.

Tuttavia, come spiegava uno studio condotto da due ricercatrici italiane dell’università di Bolzano e del Politecnico di Milano, è la patologia che meglio definisce la nostra società. Secondo la ricerca del 2021 i nostri leader aziendali tendono ad essere sproporzionatamente narcisisti perché questo tratto caratteriale aiuta ad arrivare più rapidamente nelle posizioni apicali. I narcisisti traggono vantaggio dalla loro personalità nonostante gli esiti negativi. Come dicono gli psicologi, i narcisisti sono individui che “funzionano molto bene”.

I cinque tratti che definiscono una personalità narcisista, secondo gli studi, sono la forte estroversione, l’eccessiva sicurezza, l’autostima priva di dubbi, il desiderio di dominare e l’autoritarismo. Magari non stiamo allevando una classe di samurai psicopatici, ma a quanto pare ci siamo innamorati dell’idea di avere leader per i quali la cosa più importante è il loro specchio e le fantasie di potenza che questo riflette. In questo modo non stiano coltivando una società felice di lavorare. E temo che queste saranno le conclusioni del libro di storia che verrà scritto tra duecento anni da un George Bailey Sansom del futuro…