Le opinioni

Fallisco, dunque sono

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Ci sarebbe così tanto da imparare e così poche occasioni sfruttate, purtroppo. Me lo diceva un po’ di tempo fa un imprenditore seduto accanto a me a un pranzo di lavoro. Perché, ha aggiunto, buttiamo letteralmente via la gran parte delle opportunità di apprendimento e ci focalizziamo su quelle che hanno un valore molto relativo. Buttiamo via i fallimenti, e ci teniamo solo i successi.

L’idea è che c’è una specie di cortocircuito culturale che riguarda le opportunità di apprendimento e miglioramento nel mondo del lavoro. Il problema è che sono sempre tutte in positivo. Siamo pieni di libri, trasmissioni, articoli, buone prassi, concentrati immancabilmente su persone brillanti e grandi successi. Nelle scuole di business, nei seminari e negli eventi organizzati, chiunque venga invitato a parlare ha sempre una storia spettacolare da raccontare.

Il che, per carità, va benissimo, se non fosse che non è questo il modo con il quale le persone imparano. Invece, il modo dal quale impariamo realmente, ci dicono generazioni di pedagogisti e adesso anche di neuroscienziati, sono gli errori. Infatti, le cose o ci vengono facili (perché abbiamo lavorato bene in precedenza per apprendere i fondamentali sottostanti) oppure ci vengono molto, molto difficili. C’è chi, incluso il sottoscritto, ci ha messo anni a metabolizzare errori professionali che altri colleghi invece avevano superato in scioltezza nel primo mese di lavoro. La ricetta? Cercare gli sbagli. Le storie finite male. I fallimenti. E provare a imparare dai propri errori e da quelli altrui.

Però possiamo provarci. Volete un esempio di errore? Mi metto in gioco. Ce n’è uno che ho fatto per una vita, sino a quando sono riuscito finalmente a metterlo a fuoco. Ma per un sacco di tempo ci ho sbattuto la testa, perché non capivo dove sbagliassi. Cioè, capivo che c’era uno sbaglio ma non quale. Lo sbaglio era la velocità. Troppa velocità. La professione del giornalismo, come molte altre attività, spesso richiede un discreto tempismo. Ci sono scadenze improvvise, non pianificate né pianificabili, che richiedono di agire rapidamente. Arriva la notizia e bisogna scriverla rapidamente. O andare in onda. È qui che diventa molto facile fare sbagli. Pensavo fosse un problema di velocità di reazione, cioè che fossi troppo lento. Invece era un problema di analisi.

Lo sbaglio è che non capivo che, quando occorre fare qualcosa molto velocemente, è necessario un tempo per raccogliere le idee e ragionare su come fare meglio. Il famoso detto: «Se hai tre ore per tagliare un albero, passa le prime due ad affilare l’accetta» vuol dire questo: bisogna prendersi il tempo di capire per bene cosa vogliamo fare. L’intenzione e l’attenzione.

Dopo che ho messo a fuoco l’errore, cioè il buttarmi a capofitto nell’attività del momento a scapito della riflessione su come farla al meglio, ho cercato di fare un piccolo salto di qualità. Ho cominciato a pensare a modi per capire il significato dei problemi che mi trovo davanti e come risolverli al meglio. Vent’anni dopo mi sembra di aver fatto qualche progresso, ma solo perché ci ho battuto la testa più e più volte.

È uno dei motivi per cui penso che un bel libro sul fallimento sarebbe interessante da leggere. Peccato non si trovano mai i volontari per poterlo scrivere. Non gli autori (di quelli l’Italia purtroppo è piena) quanto i testimonial. Gli imprenditori e i manager, anche di successo, che abbiano voglia di mettersi a nudo e raccontare i loro sbagli più clamorosi. Peccato non ci sia, perché queste sarebbero lezioni da cui potremmo imparare tutti.