Le opinioni

HR: la bussola per orientarsi tra le bolle della Generazione Z

Scritto il

di Antonio Dini
(Giornalista e scrittore)

Il mestiere più interessante nel prossimo futuro? È nell’ufficio delle risorse umane: la funzione aziendale che si occupa del personale. Il motivo per cui è interessante è che è diventata una vera sfida riuscire a gestire l’emorragia di nuovi talenti: i giovani non vogliono entrare in azienda e, se anche acconsentono, sono pronti ad andarsene alla prima occasione. Perché? Ci sono varie chiavi di lettura per cercare di inquadrare la frattura e il crescente divario che gli esperti vedono tra la cosiddetta “Gen-Z” e le generazioni precedenti.

Per semplificare, i giovani non accettano più di entrare in azienda alle condizioni del datore di lavoro, e se non sono soddisfatti piuttosto non partecipano, se ne vanno, ma in modo silenzioso, senza particolari conflitto o proteste.

Qual è la ragione? C’è chi critica la loro eccessiva passività e mancanza di reattività agli stimoli, una sorta di apatico disinteresse. C’è invece chi esalta lo spirito nuovo, più intransigente, che si concentra su temi dimenticati dalle “vecchie” generazioni: lo scopo del lavoro, il desiderio di imparare, l’idea di non passare tutta la vita chiusi in un ufficio (o in un open space).

C’è anche chi sottolinea che chi entra nel mondo del lavoro oggi ha aspettative più alte dal punto di vista delle opportunità offerte dal primo posto trovato, tradizionalmente “scarso”. Questo perché oggi ci sono sicurezze che fino a ieri non erano scontate: le case sono riscaldate, l’accesso alla scuola è universale e non più un privilegio. Rinunciare a un lavoro è possibile perché il bisogno è minore e le aspettative più alte.

Altri ancora osservano che i Gen-Z vivono in un mondo in cui c’è una sola certezza: l’incertezza del futuro. Questo rende anche più cinici e disincantati: i giovani sanno che i lavori che gli vengono offerti oggi tra meno di cinque anni saranno automatizzati dall’intelligenza artificiale e non li accettano più. Piuttosto, si sta a casa, ci si dedica ad altro, visto che le distrazioni digitali non mancano e il welfare sia statale che familiare garantisce la sicurezza. Gli studiosi si arrabattano nel cercare dei tratti unici del “carattere” dei giovani. Vogliono spiegare i motivi di comportamenti difficili da codificare e quindi da capire.

Tra le tante voci, sono affascinato dalla teoria di Aaron Z. Lewis, inserita nel suo libro You can handle the post-truth, che ancora non è stato tradotto in italiano. Nel libro, Lewis ci fa fare un giro in tutto quello che è assurdo, falso, bizzarro e sbagliato della rete e spiega come tutto questo stia modellando il nostro modo di capire il mondo, il futuro, la storia.

«La frammentazione della realtà – scrive Lewis – vuol dire che il nostro modo di comprendere la storia, basato su una narrativa unica che procede dal passato al presente, non è più adeguato. La storia unica basata sul consenso degli studiosi non è più adeguata a spiegare il modo con cui le persone vivono la loro realtà in bolle social tra loro in contraddizione”.

I nostri figli da anni hanno accesso a una serie infinita di storie alternative, grazie a YouTube e al resto della rete. E questo li sta formando in milioni di modi diversi, contraddittori. È impossibile creare una narrazione unica e questo rende impossibile capire cosa succede con le modalità di analisi tradizionali.

Risultato? Non c’è in realtà una risposta per capire ad esempio il divario tra la Gen-Z e le generazioni precedenti sul lavoro, se non ammettendo che forse non esiste più una sola Gen-Z. Esistono invece una miriade di bolle, ognuna un po’ diversa dalle altre. E per questo occuparsi di gestione delle risorse umane è diventato un lavoro molto difficile e al tempo stesso interessante.