Le opinioni

Il galateo delle buone relazioni

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di Antonio Dini –  Giornalista e scrittore

La prima volta che sono andato negli Stati Uniti per lavoro, dopo una giornata piuttosto faticosa siamo andati a casa di uno dei docenti dell’università che mi ospitava per una cena in piedi. Entrando, la mia accompagnatrice – una giovane venture capitalist oggi ritirata – mi ha incitato a “lavorarmi la stanza”. Working the room è un’espressione idiomatica inglese che indica quando, in un contesto sociale, una persona è attiva e crea delle connessioni con l’obiettivo di lasciare una buona impressione sulle persone presenti.

Fare networking in buona parte dei Paesi anglosassoni non è un’opzione né una forma di maleducazione, soprattutto se non si dice la cosa sbagliata. È una zona franca che consente di uscire dai propri confini personali, anche quando i nostri interlocutori sono persone riservate, e attiva un meccanismo di potenziale mobilità sociale. Essere positivi e proattivi è considerata una qualità, non un fastidio (soprattutto se lo si sa fare con garbo e leggerezza), e apre la via a futuri incontri di lavoro, magari opportunità di fare business.

La mia vecchia conoscenza mi raccontava di quanto i “boys club”, i ristretti circoli al maschile dove si coltivano amicizie e relazioni utili per tutta una carriera professionale o imprenditoriale, fossero a suo avviso una delle più grandi distorsioni delle pari opportunità. «Non voglio un trattamento speciale», mi diceva, «ma vorrei poter competere alla pari e avere le stesse possibilità di accesso alle medesime persone a cui accedono i miei colleghi maschi della mia stessa età». Lunghissime partite a golf, domeniche passate a fare canottaggio su qualche canale del New England, tutti posti irraggiungibili per una ragazza.

Frequentare eventi di networking è ancora oggi una delle ricette migliori per entrare in contatto con nuovi ambienti, per stringere nuove relazioni, per preparare la strada a progetti futuri. Ma bisogna fare attenzione. Non siamo ex allievi di Harvard, non veniamo dalla Boston “bene”, non abbiamo passato le vacanze a Martha’s Vineyard. Occorre sapersi muovere e avere la sensibilità di capire quali sono le regole d’ingaggio nel contesto che frequentiamo. Evitando gli errori madornali che rovinano tutto a qualsiasi latitudine.

Cominciamo con la sincerità: non c’è peccato peggiore che presentarsi facendo finta di essere un’altra cosa. Millantare successi o relazioni che non abbiamo, ad esempio. E poi l’ego, il più grande avversario di tutti noi: lasciamolo a casa o perlomeno al guardaroba assieme al cappotto. Per gli altri non c’è cosa più fastidiosa che incontrare qualcuno che non fa altro che parlare di sé, magari in maniera competitiva e asfissiante. Invece, se si sorride, se si è capaci di stringere la mano a tutti, e se si fanno domande genuinamente interessate agli altri (non degli interrogatori: domande semplici, gentili) alle cui risposte prestiamo poi la dovuta attenzione, abbiamo vinto tutto.

Scrivo la rubrica di questa settimana tornando da un altro viaggio di lavoro negli Usa. Per combinazione proprio a Boston, dove ho ritrovato due persone che conobbi in quella prima cena in piedi a casa del nostro ospite di allora (purtroppo oggi non c’è più). Sono passati 25 anni, eppure l’imprinting di quella serata, dei sorrisi aperti, delle strette di mano franche e della voglia di conoscersi senza infingimenti, resiste ancora. Come avrebbe detto la mia vecchia accompagnatrice, «vuol dire che ti sei lavorato bene la stanza».