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Il paradosso delle aliquote e il totem della progressività: con 50mila euro sei un ricco

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Mentre la riforma fiscale prevede la riduzione a tre degli scaglioni Irpef e, in prospettiva, la tassazione flat sui redditi, torna il tema della progressività dell’imposizione. Il sistema tributario deve essere informato a criteri di progressività, dispone la Costituzione. Ma non vuol dire che tutti i tributi devono essere progressivi, come a volte si sostiene; è il sistema nel suo insieme che deve tendere a redistribuire la ricchezza. Ora, se è vero che una parte non marginale dei redditi prodotti è soggetta a tassazione proporzionale e non progressiva (è così per le rendite finanziarie, per la cedolare sugli affitti, per la flat tax di autonomi e piccoli imprenditori), è anche vero che la pressione fiscale in Italia (42,9% nel 2022) è secondo Eurostat superiore alla media Ue (41,2%), e che l’Irpef rimane comunque un tributo fortemente progressivo.

Lo dimostra la sua struttura, come si è evoluta – o involuta – negli anni, e la distribuzione del gettito per classi di reddito. Mentre alcune tipologie di reddito sono state sottratte all’Irpef, anche per limitare fenomeni di elusione o evasione dovuti all’elevato livello di tassazione, la base imponibile, soprattutto per i redditi medio-alti, è stata ampliata in misura rilevante. Dapprima, trasformando le deduzioni per oneri in detrazioni (limitate al 19%), poi riducendo fino ad azzerare le detrazioni per carichi familiari e spese di produzione del reddito, ancora riducendo ulteriormente e/o eliminando la detraibilità di numerosi oneri.

Inoltre, la soglia della ricchezza (cui corrisponde lo scaglione più elevato, tassato al 43%) è stata abbassata ed è ora a soli 50mila euro (non un reddito da nababbi); per fare un paragone in moneta corrente, i 50mila euro di oggi erano tassati nel 1974 al 29% e la soglia di ricchezza superava i 3 milioni di euro. E ci sono ancora le addizionali comunali e regionali, che pesano anche in forma progressiva fino al 4,2%. C’è poi l’ulteriore progressività indotta dalle soglie di accesso a varie forme di welfare (sgravi contributivi, ticket sanitari, mense scolastiche, tasse universitarie, bonus vari), occulta e difficile da misurare. È stato dimostrato che negli ultimi quarant’anni l’effetto redistributivo dell’Irpef è quasi raddoppiato.

Dati recentemente pubblicati confermano quanto l’Irpef sia sbilanciata, già a partire dalle classi reddituali medio-alte. Il settimo Rapporto CIDA su «La Regionalizzazione del Sistema Previdenziale italiano – Entrate contributive e fiscali» contiene tra l’altro interessanti elaborazioni sui dati del gettito Irpef 2021. Emergono squilibri per fasce di reddito e territoriali, fortemente a carico del ceto medio. Appena il 14% dei contribuenti Irpef dichiara redditi superiori a 35mila euro, e genera oltre il 62% del gettito complessivo. In pratica quasi i due terzi del gettito da imposte sul reddito è a carico di chi guadagna più di 35mila euro. Chi dichiara da 35 a 55mila euro (meno del 9% dei contribuenti) copre quasi il 22% del gettito. Ancora più clamorosi i dati se si sale di reddito. I contribuenti che dichiarano più di 100mila euro sono l’1,38%, ma coprono il 22,25% del gettito Irpef. Certo, sono dati viziati dall’evasione e dai redditi fuori Irpef, ma è altrettanto certo che il sistema – a dispetto della vulgata – è ormai eccessivamente progressivo e squilibrato. Non è dunque un’eresia che si metta mano ad una razionale revisione di imponibili, aliquote, scaglioni e oneri. Ma sarà impossibile a costo zero.