Le opinioni

Il “politicamente corretto” che a parole include ma nei fatti manipola i comportamenti

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Chi come me cerca di fare la propria personale battaglia per un ritrovato umanesimo nei rapporti sociali, economici, politici e quotidiani, dovrebbe con favore accogliere la proposta di un approccio che oggi viene definito “politicamente corretto” o, come noi italiani, da sempre colonizzati, diciamo nel mainstream (altro termine che non dovrebbe esserci proprio), “politically correct”, detto all’americana.

Sì, perché il “politicamente corretto” nasce in certi ambienti democratici degli Stati Uniti per promuovere quella che viene definita “cultura woke”, in contrapposizione alla nostra antica cultura che è proprio il bersaglio della concezione “woke” del mondo.

Vogliono distruggerla perché la cultura occidentale, e latina in particolare, è sinonimo da millenni di civiltà: analogica, umanistica, basata sulla bellezza, sulla letteratura, sull’umanità, sulla spiritualità, sulla democrazia; quella vera, perché frutto delle tradizioni e dell’antropologia sociale.

È quella cultura che mantiene e preserva le differenze perché sono queste il motore dell’evoluzione umana. Abolirle, come si propone in modo massiccio il movimento woke, lavora proprio in senso antidemocratico, ma soprattutto transumano e non spirituale.

Cosa fa la cultura woke?

Con il manifesto intento di promuovere l’abolizione delle diversità, porta avanti una cultura dell’omogenizzazione delle diversità, allo scopo, opposto, di rinchiudere queste in nicchie da cui vengono esclusi coloro che in quella categoria non rientrano.

Omogenizzano, paradossalmente, per dividere. Uniformano per ridurre le differenze, non per motivi umanitari, ma solo per tenere sotto controllo eventuali rivendicazioni, sociali, politiche e, soprattutto, economiche. Tutti uguali: tutti, così, più facilmente manipolabili.

E infatti, chi non ha sentito, letto o usato il termine “inclusione” in questi ultimi mesi, all’insegna del “politically correct”? Non c’è comunicatore che non abbia consigliato ai propri clienti di comprendere una strategia all’insegna della “sostenibilità” e, appunto, dell’inclusione. Stendo un velo pietoso sull’ormai abusato e usurpato concetto di sostenibilità, quasi sempre legato a un tema puramente ecologista che però dimentica l’essere umano.

Mi concentro invece su quello che sembra lo stia sostituendo, spostando il focus sulla nuova tendenza umanistica di un cinico potere mediatico che improvvisamente, dopo averne fatte (e fatte subire…) di cotte e di crude durante il periodo cosiddetto pandemico (preferisco il termine “infodemico”!), prende il sopravvento grazie ai soliti belanti e zelanti promotori e seguaci del mainstream socio-mediatico.

Ma cosa vuol dire “includere”? Letteralmente, rappresenta l’atto di comprendere un elemento all’interno di un gruppo o di un insieme. Ma la scusa dell’inclusione è un buon motivo per spersonalizzare l’individuo e, accogliendolo all’interno di un gruppo, renderlo in questo anonimo e, soprattutto, gestibile, secondo dei protocolli sociali che il potere definisce e impone.

Quindi, a ben vedere, l’inclusione non è un atto democratico ma, al contrario, una furba operazione di annientamento delle personalità al fine di gestirne i comportamenti, sia indirizzandoli sia minimizzandoli nella loro eventuale opposizione al Sistema.

La “democrazia” sta sempre più diventando una vetusta definizione da libro Cuore, in questo mondo digitalizzato e robotizzato da élite dispotiche. Si salvi chi può, a iniziare da chi rimane sveglio e, soprattutto, “diverso” malgrado “loro”, i manipolatori del regime transumano!