Le opinioni

Intelligenza artificiale e tassazione dei robot

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di Antonio Tomassini, Professore di diritto tributario, Partner DLA Piper Studio Legale

L’intelligenza artificiale e in generale il progresso tecnologico sono la cifra della rivoluzione che sta interessando il genere umano. È un processo che non si può arrestare (si stima che nel prossimo decennio il 50% dei posti di lavoro siano a rischio “sostituzione da macchine”) ma che va guidato nel rispetto della dignità dell’uomo, con la stella polare di uno sviluppo sostenibile e cambiando gli attuali indicatori che misurano la salute dell’economia.

Il diritto giocherà un ruolo fondamentale come scienza sociale atta a creare norme in funzione delle scelte etiche a seconda del momento culturale e delle esigenze della persona.

È tuttavia una faticosa rincorsa, attesa la velocità dell’evoluzione tecnologica, quella che devono fare le norme, tra cui ovviamente anche quelle tributarie, sì “derivate”, ma fondamentali sul piano dell’equità sociale.

L’intelligenza artificiale (AI) interessa il fisco sotto diverse prospettive.

Come “aiuto” rispetto alle dichiarazioni dei contribuenti e alle attività di controllo e accertamento dell’amministrazione finanziaria. Come strumento di giustizia predittiva per l’esito dei giudizi tributari. Come nuova manifestazione di soggetti e presupposti di imposta, che è l’aspetto più complesso, riassunto nella evocativa (supposta) necessità di “tassare i robot”, in un mondo dove invero non abbiamo chiarezza nemmeno rispetto a quelli tradizionali, di presupposti di imposta.

Certo, nell’infosfera della AI è ancor più evidente la confusione rispetto alla corretta individuazione dei fenomeni sottostanti.

E prima occorre definire e distinguere sul piano giuridico AI generativa e altre fattispecie, per non ripetere l’errore fatto con le criptoattività, dove le regole di tassazione della legge di bilancio 2023 sono arrivate prima della qualificazione giuridica, un salto in avanti che ha lasciato aperte numerosissime questioni.

È indubitabile che l’ascesa della c.d. data economy consenta di massimizzare i profitti di attività esistenti e di creare nuove manifestazioni di ricchezza, anche proprio sulla base del valore del “dato in sé”, negoziabile esso stesso. La data economy si muove in fretta verso i 1000 miliardi.

Ma come e cosa tassare?

La robot tax, ovvero una forma di imposizione sui sistemi incentrati sulla AI, oggi non esiste e le iniziative in discussione (con una legge sudcoreana come capofila) sono focalizzate su meccanismi di disincentivazione dell’impiego della AI, più che sulla istituzione di nuovi soggetti passivi-robot o presupposti di imposta.

Del resto, stando all’Italia, c’è chi ritiene di mantenere l’attuale assetto (peraltro l’art. 73 Tuir vieta l’introduzione di nuovi soggetti passivi, se c’è già chi “possiede” quell’extra reddito), limitandosi a tassare la maggiore capacità contributiva generata dai soggetti che utilizzano l’AI. Per farlo si potrebbe ragionare su un c.d. level playing field, ovvero una stima che muova dal “valore” del lavoro umano che viene ad essere sostituito.

Un’alternativa, visto che siamo in epoca di riforme, potrebbe essere quella di pensare ad una nuova architettura fiscale, che si sposti maggiormente dal fattore produttivo lavoro al fattore produttivo capitale. In quest’ottica, l’imposta sui contribuenti-robot o comunque sulle manifestazioni di ricchezza prodotte dall’AI dovrebbe fungere da strumento di redistribuzione della ricchezza, secondo quella che anche su queste colonne abbiamo chiamato funzione etica del tributo, figlia di una politica che concorre a modellare l’assetto socio-economico del Paese.