Le opinioni

La digitalizzazione dell’economia rivoluziona i modelli produttivi

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di Cesare Damiano

Ormai la parola “transizione” è diventata di moda. Si parla abitualmente, nei conciliaboli politici ed economici, di transizione ecologica e digitale. Noi stessi, ognuno di noi, ci sentiamo in transizione verso un “non si sa dove” inquietante e indefinito. Non è, dunque, banale affermare che ci troviamo in un contesto di profondi cambiamenti e di nuovi paradigmi, anche se questi concetti li stiamo ripetendo, con maggiore o minore convinzione, da alcuni decenni.

Oggi, però, è diverso, perché stiamo toccando con mano quali siano le conseguenze di un conflitto armato alle porte di casa, di una nuova guerra fredda che può rendere reversibile la globalizzazione, di una pandemia vissuta sulla nostra pelle, di un’economia perturbata dalla crisi energetica e alimentare e dall’inflazione, dell’acuirsi dei contrasti tra le generazioni, mano a mano che i giovani-non-più-giovani avvertono l’egoismo dei padri baby boomers a fronte della generosità dei loro nonni nati all’inizio del ‘900.

La mancanza di visione e di orizzonte che connota la società contemporanea trascina con sé la mancanza di futuro che pesa come un macigno sulla coscienza giovanile. È da queste rotture che dobbiamo ripartire per ricomporre i frammenti di una società sempre meno solidale che ha bisogno di sapersi rileggere e riprogettare. Partiamo dal lavoro. L’epopea ford-taylorista, che ha largamente dominato il secolo scorso, aveva forgiato un modello di produzione che pagava bene i suoi operai, anche se, come scrisse nel 1964 Herbert Marcuse ne “L’uomo a una dimensione”, le società industriali avanzate hanno creato «falsi bisogni che hanno integrato gli individui nel sistema esistente di produzione  e consumo». Integrati, ma ben pagati.

Oggi quel paradigma si è rovesciato: le giovani generazioni incontrano, nella gran parte dei casi, un lavoro mal pagato e provvisorio: infatti, i contratti a termine rappresentano il 16% dello stock occupazionale. Si può cambiare prospettiva? Sì, ma non basta la bacchetta magica, data la complessità della situazione, anche se qualche spiraglio si può aprire. Sicuramente va colto il fatto che l’approccio al lavoro è profondamente cambiato: oggi, di fronte a proposte non salarialmente adeguate e prive di prospettiva, molti giovani esprimono un rifiuto e chiedono  anche che il lavoro contenga, nel suo svolgimento, il giusto equilibrio tra tempi di vita e di lavoro.

Del resto, con l’affermarsi della digitalizzazione dell’economia e del suo impatto sul modello organizzativo dell’impresa, nuovi modelli produttivi si sono affermati. Ne è un esempio il lavoro agile. Introdotto nel nostro ordinamento legislativo nel 2017, ha avuto un inizio stentato, in alcune aziende medio-grandi vocate alla sperimentazione, ed è esploso con la pandemia, con il coinvolgimento di oltre sei milioni e mezzo di lavoratori, nel settore pubblico e privato. In particolare nel pubblico impiego il lavoro agile è diventato, a tutti gli effetti, lavoro da remoto mentre, come sappiamo, la sua vera modalità si svolge in modo ibrido, presenza-distanza.

Adesso si tratta di fare un consuntivo dopo questa sperimentazione di massa. Le molte indagini e ricerche che sono state compiute al riguardo testimoniano un alto gradimento di questa modalità organizzativa da parte delle imprese e dei lavoratori, anche se recentemente giungono alcuni segnali di arretramento da parte di alcune aziende e dei lavoratori, in quest’ultimo caso a causa dei costi energetici che incidono pesantemente sui bilanci familiari.

I vantaggi, comunque, sono facilmente individuabili: alle imprese servono meno spazi, dunque meno affitti, meno spese per consumi energetici, pulizie e manutenzione. A questo vanno aggiunti anche i risparmi sulle malattie brevi e sugli straordinari, assorbiti dalla flessibilità del lavoro agile. Anche i lavoratori hanno goduto dei loro vantaggi: risparmio di tempo, di costi di trasporto (e anche minor rischio di incidenti in itinere), il che vuol dire migliore conciliazione tra tempi di vita e di lavoro. Quest’ultimo aspetto, come abbiamo visto, è un elemento non secondario per favorire l’incontro tra domanda e offerta di impiego.