Le opinioni

La rivoluzione fiscale passa dalla filantropia

Scritto il

di Antonio Tomassini
(Professore di diritto tributario, Partner DLA Piper Studio Legale)

La premier Giorgia Meloni in una recente intervista ha espresso la volontà di studiare interventi “rivoluzionari” in alcuni ambiti, tra cui quello fiscale. Tuttavia, anche le rivoluzioni si fanno conoscendo le proprie capacità, anzi magari proprio partendo da esse.

L’Italia deve valorizzare il suo maggiore punto di forza, ovvero l’immenso patrimonio artistico e culturale, certificato primo al mondo dall’Unesco. I costituenti ci avevano già pensato con l’art. 9 della Carta: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Per raggiungere l’obiettivo serve fare sistema, migliorare le infrastrutture, attrarre investimenti esteri (premiamo quelle aziende che collocano centri di ricerca e sedi in Italia, magari chiedendogli investimenti per migliorare luoghi e infrastrutture). Poi bisogna far parlare questo primo grande punto di forza con il secondo: l’attrattività turistica. In altre parole, abbiamo bisogno di un’economia dell’arte e della cultura e anche il fisco può essere uno strumento di stimolo.

Il mecenatismo privato negli Usa raggiunge cifre equiparabili al Pil di alcuni paesi europei (circa 300 miliardi di dollari l’anno), ed è il diretto riflesso di un atteggiamento culturale che vede nel cosiddetto “give back” un dovere civico. A questo si affianca una politica fiscale che garantisce ampie deduzioni, sino al 50% dell’elargizione, che consentono al cittadino di poter effettuare una vera e propria pianificazione di ciò che intende destinare a scopi filantropici e dei relativi vantaggi.

La filantropia e il mecenatismo riguardano non solo grandi sfide globali ma anche ‘obiettivi della porta accanto’ a disposizione di tante famiglie, non per forza ricchissime. La pandemia, per esempio, ha fatto emergere una grande voglia di donare e questo ha stimolato varie iniziative locali.

C’è una grande differenza tra filantropia e carità. La più marcata è quella relativa alle modalità con cui qualcuno realizza una o più iniziative benefiche. Se il gesto caritatevole è, di norma, l’atto di altruismo volto a far fronte ad una situazione di emergenza, la filantropia, invece, perlomeno quella più evoluta, ha alla base un piano strutturato destinato a cambiare, ovviamente in meglio, l’ambito che l’attività stessa coinvolge. Per agevolare tali iniziative, proprio durante la pandemia, grazie a una petizione arrivata sino al Parlamento europeo si sono evitati inconvenienti di detrazione Iva sugli acquisti per le aziende che hanno donato beni e dispositivi di protezione necessari a superare l’emergenza Covid e si è raffinata la normativa. Cambiare in meglio si può. In attesa che si faccia sistema e si pensi a norme di maggior favore, rivolte alle realtà più efficienti, per la gestione di iniziative filantropiche (come i Donor Advised Trust), alcuni interventi su istituti che già funzionano bene ci paiono attuabili subito.

Partiamo dalle società benefit. Molte si stanno trasformando in Benefit corp spontaneamente, senza vantaggi fiscali, ed è un bene. Tuttavia ci sembra manchi ancora una chiara idea del loro ruolo. In caso di destinazione a fini meritori, ad esempio, gli utili reinvestiti da queste società (che, ripetiamo, al momento non hanno vantaggi fiscali eccettuato il credito di imposta del 50% per le spese di costituzione e trasformazione) potrebbero essere detassati in una misura superiore al 50%. Si potrebbero poi concedere deduzioni extra sul costo del lavoro nel caso in cui assumessero NEET (Not (engaged) in Education, Employment or Training: in Italia nel 2020 erano più di 3 milioni).

In secondo luogo, l’Art bonus, che ha raccolto 757 milioni dalla sua introduzione nel 2014. È un credito d’imposta del 65% per persone fisiche e enti non commerciali, nei limiti del 15% del reddito imponibile, e per soggetti titolari di reddito d’impresa nei limiti del cinque per mille dei ricavi annui. Riguarda le erogazioni in denaro di persone fisiche, enti non commerciali e soggetti titolari di reddito d’impresa per “interventi di manutenzione, protezione e restauro di beni culturali pubblici” e per il sostegno degli istituti e dei luoghi della cultura di appartenenza pubblica o para pubblica.

Si potrebbe estendere il meccanismo anche ai beni artistici e culturali privati, rimuovendo il limite dell’appartenenza pubblica, a condizioni che comunque consentano di raggiungere un più ampio interesse pubblico, come l’obbligo di mettere a disposizione, gratis e per un certo periodo di tempo, i beni oggetto degli interventi e poi, superato il periodo gratuito, di reinvestire parte delle risorse così ottenute in nuove iniziative artistiche e culturali di rilevanza collettiva. Pensiamo a chi decidesse di far “emergere” il proprio patrimonio artistico facendolo confluire in un museo privato (ma accessibile al pubblico, di nuovo, con forme di gratuità) o utilizzando altri strumenti dell’ordinamento quale il trust o la fondazione per iniziative artistiche o filantropiche.

Si potrebbe considerare, poi, la detrazione dei consumi culturali individuali come avviene per i ticket medici e, per le aziende, una super deduzione del 110% – stile patent box per la ricerca – per chi investe in cultura o finanzia eventi culturali pubblici o privati previamente “approvati” con un meccanismo che ne certifichi comunque la promozione di interessi e beni meritevoli di tutela per la collettività.