Le opinioni

L’elogio della trabajanza: lavorare godendosi il mondo

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di Antonio Dini – Giornalista e scrittore

In vacanza o al lavoro? Meglio entrambe le cose. Scrivo queste righe sul mio portatile da un bar di Ueno, a Tokyo, in un’afosissima giornata di luglio. Ai tavolini, turisti, famiglie, ma anche persone che, come me, lavorano. Il dubbio amletico, lavoro o vacanza, è il titolo di un’email di un’agenzia di viaggi che mi è appena arrivato. Ovviamente l’agenzia fa pubblicità e vuole vendere. Però tocca qualcosa di vero: perché scegliere tra lavoro e vacanza, se l’obiettivo è vedere il mondo?

Non ci sono solo nomadi digitali. Un esercito di circa 30 milioni di persone nel mondo (a marzo gli occupati in Italia, per dire, erano 23 milioni e 349mila, dato Istat). I nomadi non sono telelavoratori da casa: invece da 30 anni lavorano cambiando città, paese, continente. La maggior parte “torna a casa” dopo cinque anni. Ma se li supera, in tre casi su quattro rimane in un altro Paese.

I nomadi digitali cercano quel centro di gravità permanente cantato da Franco Battiato. Ma altri ce l’hanno già. In Italia, ad esempio, si cambia città in media una volta nella vita, due volte il partner e tre volte il lavoro. Almeno, un tempo. Chi ha meno di 35 anni invece cambia molto più spesso, “favorito” da formule “liquide” spesso basate su partita Iva forfettaria.

Soprattutto, chi ha meno di 35 anni ha aspettative diverse: in questa pagina ho scritto più volte che le nuove generazioni vogliono più attenzione ai diritti (ambiente, privacy, inclusione) e orari più flessibili, libertà di movimento, possibilità di lavorare fuori dall’ufficio. E qui, più che di nomadi digitali, parliamo di persone che, soprattutto dopo la pandemia, hanno capito che il lavoro non è un posto fisico ma un processo digitale. E loro non vogliono stare in ufficio. Vogliono vedere il mondo.

Non è un’idea balzana. Viviamo nel migliore dei mondi possibili, nonostante guerre, povertà e pandemie. Il settimanale tedesco Der Spiegel da anni ha una rubrica che spiega perché siamo fortunati a essere vivi oggi e non cent’anni fa: curiamo malattie che fino a due generazioni fa erano mortali, abbiamo accesso a cultura, sport, educazione, alimenti sani, trasporti economici e sicuri come nessuno prima di noi.

Per questo l’idea del nomade digitale secondo me è solo la punta dell’iceberg. Sotto c’è un’altra cosa, che ho deciso di indagare. L’ho chiamata trabajanza, metà trabajo (il lavoro, in spagnolo) e metà vacanza. La fanno le persone che vogliono vedere il mondo ma non vogliono smettere di lavorare.

Così negli ultimi mesi, mentre leggevate questa rubrica sul Settimanale, ho viaggiato in continenti diversi per vedere e sperimentare in prima persona come funzionano le trabajanze. Ho incontrato ragazzi brasiliani che vanno a lavorare per qualche settimana a Buenos Aires grazie al potere d’acquisto del Real brasiliano sul Peso argentino. O Inglesi a Lisbona e Italiani alle Azzorre. Programmatori indiani della Silicon Valley che si spostano a Nashville e Austin per la musica. Esploratori urbani di Lione, Aix-en-Provence e Gand che cercano nuovi orizzonti a Tokyo, Seoul e Taipei, i tre gioielli asiatici delle trabajanze (purtroppo non è più così a Hong Kong). E poi ragazze tedesche e olandesi incrociate in aeroporto mentre andavano in Indonesia e in Nuova Zelanda.

Sono vacanze? Non solo. È anche lavoro. Una settimana minimo, massimo tre, per non impattare sulla famiglia e non avere problemi fiscali o di visto. Computer sempre con la VPN accesa, bagagli minimi, Airbnb preso con la app, la eSim straniera accanto al proprio numero per connettersi ma non perdere messaggi e Whatsapp. Lo smartphone come telecomando della vita, bacchetta magica per essere maghi onnipotenti in qualsiasi parte del mondo ci si trovi. Magari, dopo l’estate, questi viaggi potrebbero diventare un’inchiesta, o un libro, o forse solo un post sui social. Non lo so. Ma ho la sensazione che questa trabajanza, che fa lavorare e girare il mondo, sia destinata a restare con noi per molto tempo…