Le opinioni

L’inglese è il “latinorum” 4.0

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di Antonio Dini – Giornalista e scrittore

Pochi giorni fa sono stato a una conferenza sull’intelligenza artificiale organizzata a Milano. Interessante, ma non è di questo che voglio parlarvi, quanto di una nota a margine. In una delle tavole rotonde, infatti, il moderatore, dopo aver introdotto un famoso “data scientist”, dopo aver tematizzato il “machine learning”, i differenti tipi di “large language models” e l’importanza dei “neural networks”, ha chiosato: «A questo punto temo di aver preso almeno una multa per aver usato troppi termini inglesi».

Il riferimento è alla proposta di legge del vicepresidente della Camera Fabio Rampelli che vuole vietare, a pena di multe fino a 100mila euro, l’uso delle parole straniere da parte della pubblica amministrazione. Una proposta che non è stata accolta con benevolenza dalla pubblica opinione. E non perché, se dovesse entrare in vigore, a Milano le persone non saprebbero più come fare a dire cosa fanno di lavoro (questa è solo una battuta, ma fino a un certo punto).  Invece, perché secondo me fa confusione tra due cose molto diverse e non ne vede una terza.

Cominciamo con la confusione che facciamo tra l’inglese come lingua neutra di scambio (e cinghia di trasmissione del sapere nel mondo globale) da un lato e dall’altro lo tsunami di forestierismi, che peraltro oggi vengono prevalentemente proprio dall’inglese.

Il problema, insomma, sono gli anglicismi che stanno facendo degenerare l’italiano scritto e parlato, non la lingua inglese di per sé. C’è un problema di ecologia linguistica, che in Italia non comprendiamo, banalizziamo e buttiamo in rissa magari paventando il fantasma del Ventennio. Non è così. Mettiamo un po’ di ordine.

Per l’inglese come lingua di scambio, ormai la decisione è stata presa dal pianeta. Se un tempo era il latino, se poi è stato il francese e lo spagnolo o l’arabo e il mandarino, a seconda di quale secolo e di quale area del mondo preferite guardare, oggi la lingua usata per lavorare insieme, scambiare informazioni e conoscersi è l’inglese. Pensarla diversamente è simpatico ma sostanzialmente irrilevante.

Il purismo linguistico è un’idea romantica, come sostituire tutte le automobili con i cavalli, e altrettanto irrealizzabile. Invece, per gli anglicismi a pioggia, questo per me è il segnale di un problema che invece esiste e che ne nasconde un altro, molto più radicato soprattutto in azienda. Per molte persone, infatti, soprattutto se di mezza età, la mancata conoscenza dell’inglese continua a essere uno stigma sociale molto sentito, come quello della mancata laurea.

C’è chi lo parla e lo capisce, e c’è chi no ma non si rassegna a studiarlo. Eppure gli anglicismi sono usati in abbondanza e in maniera scorretta perché servono sia a mettere una toppa alle mancanze lessicali dell’italiano, sia a dimostrare una familiarità con l’inglese che invece non c’è.

Addirittura, gli anglicismi diventano come il “latinorum” di Don Abbondio: una sorta di imbroglio di parole fatto apposta per nascondere altre paure e insicurezze. Allora, proteggiamo l’italiano ma facciamolo in modo intelligente. Se serve, usiamo l’inglese, perché è una opportunità per scambiare informazioni e competere alla pari sui mercati.

Ma impariamo anche a non usare a vanvera le parole straniere, spesso mal pronunciate o mal scritte e soprattutto spesso mal comprese. Non restiamo vittima del “latinorum” dei giorni nostri, insomma.

Quindi, la mia proposta: vietiamo l’uso di parole straniere ma solo quando non sappiamo cosa vogliono dire, e al tempo stesso studiamo meglio le lingue (italiano incluso) che servono per comunicare, non per aumentare la confusione. Così, ad esempio, quando avremo capito che cosa vuol dire “machine learning”, potremo anche dire “apprendimento automatico” senza problemi di multe o complessi di inferiorità.